Blog

Un faro terrestre per alieni

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista UFO INTERNATIONAL MAGAZINE nel numero di Febbraio 2021)

Nell’immaginario collettivo l’ipotesi di un contatto extraterrestre è un qualcosa di altamente inverosimile. Per chi basa le proprie idee esclusivamente su ciò che è diffuso dalle autorità politiche e scientifiche attraverso i mass media mainstream, scienza e politica non si occupano di alieni.

Secondo questa diffusa ma errata idea, la ricerca di vita extraterrestre si concentra su forme di vita abbastanza semplici, come batteri ad esempio, e non a forme di vita più complesse o addirittura a civiltà intelligenti. Secondo il concetto di “vita” stabilito dalla Nasa “la vita è un sistema chimico autosufficiente, capace di evoluzione darwiniana”. Sul medesimo concetto si basano dunque tutti i centri di ricerca spaziale.

Si è dunque portati a pensare che la possibilità di un reale contatto con forme di vita aliene intelligenti, sia materia per illetterati ricercatori alternativi e ufologi di ogni sorta, spesso dipinti dai mass media come persone facilmente suggestionabili e completamente a digiuno di materie scientifiche.

Come diceva Einstein però “L’irriflessivo rispetto delle autorità è il più grande nemico della verità”, ed anche in questo caso ciò che si ritiene “reale” perché solo perché ufficialmente affermato, si rivela completamente errato.

Esistono in ambito politico, numerosi trattati, accordi e regolamenti tra nazioni, che stabiliscono quale debba essere il comportamento da tenere in caso di “contatto” ufficiale con civiltà aliene. Sebbene tutto questo non confermi l’esistenza di tali civiltà, né tantomeno di un contatto già avvenuto, conferma almeno il fatto che la possibilità è tutt’altro che remota, improbabile e inverosimile come invece si vuol far credere.

Se il fenomeno Ufo non esiste, se il contatto con altre civiltà aliene fosse assai improbabile (come spesso si sente ripetere richiamando ogni volta il famoso paradosso di Fermi: dove sono tutti quanti?), perché emanare questo tipo di regolamenti e vademecum in caso di contatto alieno?

Potrebbe sembrare questa una semplice dissertazione filosofica, se anche la scienza non si fosse preoccupata in passato e anche oggi, di compiere studi per provare a trovare e stabilire un qualche contatto con civiltà non terrestri.

I messaggi contenuti nel Voyager Golden Record, imbarcato sulle sonde Voyager inviate all’esplorazione del nostro sistema solare nel 1977, il progetto SETI (Serch Extraterrestrail Intelligence) nato negli USA alla fine degli anni ’50 e finanziato ancora oggi da alcuni Paesi attraverso vari organismi statali (in Italia se ne occupano alcuni importanti astrofisici dell’INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica – come Claudio Maccone e Stelvio Montebrugnoli) o il progetto Breakthrougt Listen finanziato da privati ma sostenuto da importanti scienziati di fama mondiale come Stephen Hawking, solo per citare i più conosciuti, sono lì a dimostralo.

Tuttavia, ogni qualvolta che s’intraprende una discussione sull’argomento "alieni", s’incappa nell’immancabile saccente e pedante ossequioso delle teorie dominanti che, sebbene non abbia probabilmente mai letto alcun libro di astrofisica o di astronomia, non conosca nulla di biologia, di storia o più in generale di scienza, interviene con supponenza “a gamba tesa” nel dibattito per ricordarci che “nulla può viaggiare più veloce della luce” e che quindi, “considerate le enormi distanze che separano le stelle, il contatto con altre civiltà, qualora esistessero contemporaneamente alla nostra, sarebbe comunque impossibile”.

Nulla vale in questi casi, far presente al presunto genio di turno, che misurare ciò che è possibile o impossibile, ciò che è reale e ciò che non lo è, utilizzando l’uomo, la sua attuale conoscenza e le sue odierne capacità tecnologiche, come “unità di misura dell’universo” è un atto di presunzione e arroganza. La storia stessa della scienza (se la si conoscesse) è lì a testimoniare quanto ciò sia errato.

Se anziché ascoltare certe “autorità”, accettare e ripetere pedissequamente ciò che si è capito (che a volte non corrisponde neanche a ciò che è stato realmente detto), ci si provasse a documentare direttamente e non per interposta persona forse la propria assurda idea cambierebbe. Sarebbe sufficiente sfogliare riviste scientifiche ufficiali o frequentare i siti delle varie agenzie spaziali o degli organismi scientifici, se proprio si ha un’idiosincrasia per i libri, per rendersi conto che ciò che è mediaticamente diffuso, non corrisponde poi all’idea di fondo che invece sottintende molte ricerche scientifiche e molti progetti di enti scientifici governativi.

Nei miei libri o nei miei articoli ho sempre cercato di portare in evidenza questo aspetto ma, siccome l’analfabetismo funzionale è ormai dilagante, forse soprattutto in chi si uniforma proprio al pensiero dominante, il concetto fatica ad essere compreso. Come si dice “a lavar la testa al somaro si perde il tempo, l’acqua e sapone”.

Personalmente non ho alcuna verità da dispensare, tuttavia invito ancora chi ancora ritenga che la scienza non si occupi veramente del contatto con civiltà extraterrestri, a documentarsi su quante numerose siano le ricerche pubblicate ogni anno sulle principali riviste scientifiche internazionali, che trattano seriamente l’argomento.

La possibilità è ritenuta talmente tanto concreta, anche in ambito scientifico, che è vivo il dibattito tra gli scienziati che ritengano “utile” un contatto con civiltà extraterrestri, probabilmente più avanzate di noi, e chi invece non manchi occasione di invitare l’umanità a evitare tutto questo.

A tal proposito vorrei citare in questa sede due ricerche, pubblicate in anni diversi da astronomi di Paesi e università diverse, che hanno proposto l’utilizzo di una tecnologia simile, in merito al possibile contatto alieno, con scopi diametralmente opposti.

Il primo studio a cui mi riferisco, è stato pubblicato nel 2016 sulla rivista Monthly Notice of the Royal Astronomici Society per opera di due astronomi americani della Columbia University di New York.

Partendo dal presupposto che esistano gli alieni (o altrimenti dovremmo pensare che siano stati presi da un raptus di follia o perché non avevano altro da fare) e che questi possano non essere amichevoli nei nostri confronti, hanno studiato attraverso complicati calcoli matematici, la possibilità di realizzare una sorta di raggio laser in grado di compensare il calo di luminosità che la Terra crea durante il suo transito davanti al Sole, celando, di fatto, l’esistenza del pianeta a un’eventuale civiltà aliena alla ricerca di pianeti abitati. Di questo studio ne ho ampiamente parlato in un mio precedente articolo che invito a leggere.

Poche settimane fa (nel mese di novembre 2018) è stata invece la volta di uno studio dei ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology).

Si sa la ricerca di segnali di vita intelligente nel cosmo è da sempre uno dei motori dell’esplorazione spaziale. Sebbene personalmente come ho già avuto modo di affermare, la ricerca di segnali radio fatta attraverso i sopracitati progetti (dal SETI in poi) dovrebbe essere considerata solo come “fumo negli occhi” dell’opinione pubblica, considerati i limiti teorici e tecnologici di tali progetti, questo tipo di ricerche continuano tuttora. Dalle emissioni radio ai segnali luminosi, i candidati passati in rassegna per stanare possibili civiltà intelligenti extraterrestri sono stati molteplici, fino ad oggi senza successo.

Gli scienziati del MIT hanno provato a ribaltare la questione. Se invece di cercare gli alieni provassimo ad attirare la loro attenzione? Questa proposta è stata avanzata in una nuova ricerca del MIT americano, secondo cui le moderne tecniche laser potrebbero, in linea di principio, essere utilizzate per costruire una sorta di gigante faro sul nostro pianeta, con un fascio di luce talmente potente da riuscire a raggiungere punti molto lontani nell’universo – fino a 20mila anni luce di distanza.

Nell’articolo pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal, gli autori presentano un vero e proprio studio di fattibilità.

Secondo i ricercatori americani, il progetto sarebbe attuabile già con la tecnologia oggi a nostra disposizione. I due elementi principali sono un laser da 1 o 2 megawatt e un telescopio di circa 40 metri attraverso cui far passare la luce del laser. Attraverso questa combinazione, si produrrebbe un fascio di radiazione infrarossa tale da distinguersi dalla luce del nostro Sole. Ciò evidenzierebbe, agli occhi di una civiltà aliena che magari sta guardando proprio nella nostra direzione, come un inequivocabile segno della presenza di un’altra civiltà evoluta.

Non resterebbe dunque che scegliere il punto del cosmo verso cui puntare questo faro terrestre, sperando di intercettare gli strumenti di qualche astronomo alieno. Un buon candidato potrebbe essere il tanto discusso sistema planetario attorno a Trappist-1, una stella a circa 40 anni luce da noi che ospita 7 mondi, 3 dei quali considerati potenzialmente abitabili.

Ma la scienza non riteneva impossibile il contatto alieno?

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Oumuamua è un veicolo alieno?

Alla fine del 2017 è apparso nel nostro sistema solare un misterioso e gigantesco oggetto a forma di sigaro. Era il primo oggetto interstellare osservato nel nostro sistema solare. La velocità a cui si avvicinava era molto elevata e da subito non lasciò alcun dubbio riguardo la sua provenienza da un altro sistema solare, e che fosse solo di passaggio nel nostro. Molto si è speculato, soprattutto inizialmente sull’origine e la natura di quest’oggetto.

Man mano che si è avvicinato alla Terra, gli astronomi di tutto il mondo, utilizzando i potenti telescopi presenti sul nostro pianeta, hanno potuto costatarne le caratteristiche.

Dapprima Oumuamua è stato classificato come un asteroide, poi come una cometa extrasolare, per buona pace dei molti che avevano speculato sull’apparizione dell’oggetto identificandolo come un veicolo alieno .

Tutto spiegato dunque? Sembra proprio di no!

Se le frettolose valutazioni, effettuate da alcuni spregiudicati “ufologi”, erano a tutti gli effetti delle speculazioni prive di fondamento, poiché basate su pochissimi dati e osservazioni, forse ora si potrebbe dire lo stesso delle successive interpretazioni e spiegazioni fornite dalla comunità scientifica ufficiale.

Grande clamore infatti, ha suscitato lo studio apparso su Arvix, un sito che traccia articoli scientifici prima della peer rewiew e dunque in attesa o in vista della pubblicazione ufficiale su qualche rivista scientifica.

Nello studio in questione, due astronomi del prestigioso Harvard Smithsonian Center of Astrophysics (CfA), analizzando i dati riguardanti la velocità e la traiettoria di Oumuamua, hanno costatato un’insolita traiettoria e un’anomala accelerazione che contravviene quella calcolata con le leggi della meccanica celeste oggi conosciute.

Queste anomalie sono state registrate e poi confermate da diversi telescopi, come il Very Large Telescope. Queste anomalie sono quindi state accertate, sono reali e l’effetto di accelerazione è tuttora presente.

Pur considerando l’interazione con qualche campo magnetico, oppure con qualche altra forza lungo la sua traiettoria, come ad esempio il campo gravitazionale di qualche grande pianeta del nostro sistema solare, tutte le ipotesi sono fallite.

L’interpretazione più verosimile per lo strano comportamento di Oumuamua è un fenomeno chiamato “outgassing”. L’outgassing si verifica quando la radiazione solare scalda la superficie di un oggetto, sciogliendone alcune parti ghiacciate. Queste sublimando, si trasformano rapidamente in gas e, fuoriuscendo dalla superficie dell’oggetto, provocano una lieve spinta propulsiva, come fosse il motore di un razzo. E’ in buona sostanza ciò che comunemente avviene nelle comete. Non a caso è stato osservato dal lander della missione Rossetta che ha fotografato questo fenomeno sulla cometa 67P/ Churyumov-Gerasimenko.

Però, nonostante sia stata classificata come una cometa interstellare, Oumuamua non presenta le caratteristiche tipiche delle comete!

Oumuamua non mostra infatti, la caratteristica lunga coda di materiale evaporato. Non mostra i segni della chioma, il guscio di gas e polveri che circondano le comete. In termini quantitativi, la quantità di gas e polveri rilasciata da Oumuamua è veramente esigua, benché Oumuamua sia effettivamente più piccola delle comete oggi conosciute.

Secondo molti astronomi, la quantità di gas rilasciata sarebbe formata da molecole troppo piccole di gas, per essere visibili dai nostri strumenti. Tuttavia, questa ipotesi è una speculazione scientifica poiché non c’è prova alcuna che questa sia vera o verosimile.

La natura dell’oggetto rimane dunque un mistero.

Nello studio degli astronomi dell’Harvard Smithsonian Center of Astrophysics, si arriva dunque a formulare anche contemplare la possibilità che possa trattarsi di un oggetto alieno artificiale, inviato per esplorare vari sistemi solari, tra cui il nostro.

Una possibilità che richiama quella del celebre progetto Breaktrough Starshot, proposto e supportato da Stephen Hawking che partirà all’esplorazione, nei prossimi decenni, del sistema solare di Alpha Centauri.

Dopotutto, perché se noi oggi siamo (o saremo presto in grado) di esplorare altri sistemi solari, non possiamo supporre che civiltà più avanzate di noi, possano aver fatto o fare, cose simili?

Oumuamua, con i suoi strani comportamenti, è dunque una sorta di sonda spaziale aliena? Molti scienziati (anche della Nasa) hanno suggerito che il miglio modo un per inviare sonde nello spazio profondo, sia quello di sfruttare dei meteoriti per costruirci sopra strutture artificiali, dotate di strumenti di analisi ma anche di macchinari in grado di fruttare le risorse energetiche presenti sul meteorite, per produrre energia per il funzionamento dei sistemi, anche di propulsione. Dalle immagini di cui disponiamo, non abbiamo evidenze della presenza di strutture artificiali. Sebbene non si possa escludere per certo, la possibilità che si tratti di una sonda artificiale (almeno parzialmente) rimane al momento solo un'ipotesi.

Oumuamua è una sorta di "inseminatore" spaziale? Sappiamo per certo che Oumuamua, i suoi strani comportamenti possono essere spiegati in parte con l'ipotesi della cometa extrasolare, formata da ghiaccio e rivestita da una crosta scura di materiale organico. Il suo passaggio ci ha dimostrato per la prima volta che simili oggetti extrasolari possono arrivare vicino al Sole, portando materiale organico da un sistema planetario all'altro. Potremmo quindi pensare che, benchè l'oggetto non appaia artificiale, sia in qualche modo stato volutamente inviato da qualcuno.

D’altro canto, anche noi abbiamo in programma con il Progetto Genesi (annunciato nel settembre2016, ideato dal fisico teorico tedesco Claudius Gros dell’Università di Francoforte e pubblicato sulla rivista Astrophysics and Space Science) di provare a spargere i semi della vita terrestre su altri sistemi solari.

Perché dovremmo escludere la possibilità che civiltà aliene possano aver pensato e attuato progetti simili?

Dopotutto, sia il creazionismo, sia l’abiogenesi rimangono, pur con differenti gradi di attendibilità, ad oggi pur sempre delle ipotesi tutt’altro che confermate e l’ipotesi panspermia sembra sempre più plausibile.

Oumuamua ci sta forse suggerendo che  la vita sulla Terra possa essere aliena ?

Stefano Nasetti

Maggiori informazioni nel libro: Il lato oscuro di Marte - dal mito alla colonizzazione.

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

C'è ossigeno su Marte!

Secondo uno studio del California Institute of Technology (Caltech), pubblicato questo mese (ottobre 2018) su "Nature Geoscience", l'ossigeno si trova nell'acqua salata sotto la superficie del pianeta rosso, potrebbe supportare la vita di microorganismi e forme di vita anche più complesse.
Secondo i ricercatori e gran parte della comunità scientifica con questa "scoperta" lo scenario cambia completamente perché aumentano le probabilità che nell'acqua marziana ci siano le condizioni per ospitare microrganismi con un metabolismo basato sull'ossigeno.
Gli scienziati del Caltech autori dello studio, hanno dichiarato: "Anche ai limiti delle incertezze, i nostri risultati suggeriscono che su Marte ci possono essere ambienti in superficie con sufficiente O2 disponibile per far respirare i microbi aerobici”.
La notizia, da prima apparsa solo sulle principali agenzie di stampa, ha poi fatto rapidamente la sua comparsa su giornali e telegiornali.

Le informazioni alla base dello studio erano state già presentate dal team di ricercatori italiani (della sonda europea Mars Express con il radar italiano Marsis) alla rivista Science negli scorsi mesi, La rivista pur pubblicando lo studio, non gli aveva forse dato il giusto risalto che invece la rivista Geoscience ha dato allo studio “fotocopia” del team statunitense del Caltech. Piccole e infantili diatribe tra ricercatori, protezione degli interessi di “bandiera” da parte di Science o cos’altro?

Per come la si giri, la vicenda è abbastanza sintomatica del momento che la “scienza” sta vivendo.

Ad ogni modo la notizia in sé non nulla o poco, di rivoluzionario nonostante invece sia presentata ovunque come tale.

Le evidenze sulla sostenibilità passata e presente della vita su Marte sono note ormai da diversi anni.

Ciò che viene divulgato periodicamente con queste “nuove” scoperte, sono in realtà soltanto dettagli che confermano quanto ormai è già noto in ambito scientifico.
Come scrivevo nel mio post di un paio di settimane fa, e ancor prima nel mio ultimo libro, le evidenze della presenza di forme di vita (non solo elementari) nel passato e nel presente di Marte, sono già conosciute da buona parte della comunità scientifica.

Le notizie di questo tipo che con regolare cadenza sono ormai diffuse, servono soltanto a preparare l'opinione pubblica riguardo l'annuncio, che verosimilmente entro 5-7 anni sarà dato, riguardo il fatto su Marte c'è vita!

Un grande problema se per decenni si è fatto credere all’opinione pubblica di essere soli nell’universo, che la vita sia un evento raro e dunque assai improbabile che si sia ripetuto anche solo nel nostro sistema solare.

Dunque in gioco non c’è soltanto l’idea che Marte ci sia vita o meno, ma è in gioco l’intera sistema d’idee che si basa su convinzioni pseudoscientifiche, come quella dell’unicità della Terra e della vita in essa (ritrattata soltanto dopo la prova incontrovertibile, datata 1995, dell’esistenza di altri pianeti) e del fatto che l’umanità rappresenti qualcosa di speciale (idea fondante di molte religioni).

La lenta preparazione con la pubblicazione quasi cadenzata di studi che reintroducono gradualmente l’idea della vita extraterrestre e della pluralità dei mondi (idea antichissima trattata tra l’altro in modo “moderno” ancorché filosofico addirittura nel 400 a.C. dai greci) serve più che altro a "preservare" l’attendibilità delle autorità scientifiche, soprattutto quelle, che per decenni, hanno sostenuto che Marte fosse un pianeta morto già solo dopo mezzo milione di anni dalla sua formazione.
Si sta sostanzialmente dando tempo ai mestieranti della scienza, affinché gradualmente rivedano pubblicamente le loro posizioni oltranziste, senza che questa inversione di rotta di 180° sia percepita dall'opinione pubblica come una contraddizione, quanto piuttosto come un progresso della conoscenza.
Il punto sta nel fatto che questi pseudo scienziati, ottenebrati dal loro ego, dai loro interessi personali o di categoria, poiché vedevano minacciato il loro ruolo di opinione leader nella divulgazione scientifica da ricercatori indipendenti (e ufologi) che sostenevano ciò che ora si sta palesemente evidenziando sulla vita marziana, hanno sempre denigrato chi, ragionevolmente e con dati alla mano, andava contro l'idea ufficiale e precostituita.

Badate bene, sbaglaire è umano e cambiare idea è sintomo d’intelligenza, ma non lo è farlo a comando e con colpevole ritardo.

Da chi ricopre ruoli importanti come quelli di “guida del sapere scientifico”, ci si aspetterebbe un comportamento di maggiore onestà intellettuale. Ma il problema forse siamo noi, persone comuni che abbiamo aspettative troppo elevate nei confronti di questi signori. Infatti, si tratta pur sempre di uomini e dunque anche chi opera nel settore della scienza, non sfugge alle logiche egoistiche che forse sono proprie dell’essere umano.
Se questa tecnica di preservare la credibilità della categoria è comprensibile sotto un certo punto di vista (ma mai accettabile), ancor più grottesco appare il comportamento dell'opinione pubblica, che invece di valutare le informazioni disponibili per formarsi la propria individuale opinione, continua ad accettare un’idea o un’evidenza solo sulla base della presunta attendibilità di chi la divulga.
Ecco quindi che un'idea (o un'evidenza) bollata fino a qualche tempo fa come folle, diviene improvvisamente reale e scientifica soltanto perché ora a divulgarla sono "autorità" ritenute convenzionalmente "credibili", le stesse autorità che prima ritenevano il tutto assolutamente impossibile e antiscientifico, nonostante le evidenze scientifiche ed oggettive.

Osserveremo quindi nei prossimi anni, le schiere di saputelli illetterati che, confacendosi al nuovo pensiero dominante, si scorderanno di ciò che dicevano prima, non riconsidereranno le loro opinioni sulle persone prima denigrate, ma ricominceranno a denigrare quelli che ancora non avranno cambiato idea a riguardo, così come prima facevano con gli altri quelli di cui ora, improvvisamente, condividono l’idea.

La questione vita su Marte è soltanto un esempio di tante analoghe situazioni che si verificano in altri campi della vita e delle scienze.

Il periodo oscurantista del libero pensiero che stiamo vivendo è anacronistico se pensiamo che grazie alla rete abbiamo la possibilità di accedere ad un numero d’informazioni come mai si è avuto nel passato. Tuttavia le persone continuano a preferire più credere che sapere demandando ciò che devono pensare, dire e di conseguenza, come devono comportarsi, alle volontà di queste “autorità” poco oneste intellettualmente (forse non solo intellettualmente) e molto egoiste.

D’altro canto che la scienza sia “malata” e che siano proprio questi interessi privati e personali, che poco hanno a che fare con la conoscenza ed il progresso, è ormai cosa nota. Una denuncia che è partita negli ultimi tempi dagli stessi membri della comunità scientifica e che è così grave da mettere addirittura in discussione l’oggettività di una buona fetta di “studi scientifici” ufficiali.

Ma tornando nel merito, una buona parte della storia del pianeta Marte è già emersa chiaramente negli ultimi anni. Prenderne coscienza fin da ora (con tutto ciò che ne consegue) o attendere che sia qualche autorità ad ufficializzarla per poi “aderire” comodamente all’idea dominante, è una scelta personale che attiene all’indole o al coraggio di ciascuno di noi.

Stefano Nasetti

Maggiori informazioni nel libro: Il lato oscuro di Marte - dal mito alla colonizzazione.

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

C'è Vita su Marte!

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista UFO INTERNATIONAL MAGAZINE nel numero di Marzo 2021)

C’è vita su Marte!

È questo l’annuncio che ormai si attende e che probabilmente, per tutta una serie di ragioni prettamente politiche a tutela dell’attendibilità e reputazione di alcune autorità scientifiche, sarà data soltanto entro i prossimi 5-7 anni. Ma le prove della passata esistenza di forme di vita sul pianeta rosso ci sono già. Decine di studi, pubblicati sulle principali riviste scientifiche, hanno fornito, sebbene in modo frammentario, evidenza inconfutabile, sgretolando punto per punto, tutte le obiezioni e i punti della ormai quarantennale idea che Marte fosse un pianeta morto, pressoché dalla sua formazione.

Questa idea affermatasi nella comunità scientifica tra la meta degli anni sessanta e quella degli anni settanta del secolo scorso, si basava esclusivamente sui pochi e superficiali dati forniti dalle missioni Mariner e Viking (benché alcuni esperimenti di quest’ultima avessero già fornito evidenza della presenza di forme di vita) costituiti principalmente da immagini fotografiche. Soprattutto quest’ultime ebbero una grande influenza nella formazione dell’idea che Marte fosse un pianeta morto. Infatti, le immagini disponibili all’epoca, sembravano confermare l’idea che il pianeta rosso fosse un pianeta desertico, arido e inospitale.

A distanza di oltre quarant’anni e grazie ai dati raccolti dalle varie missioni di esplorazione degli ultimi vent’anni, come detto, questa idea è sostanzialmente stata del tutto smentita.

La vecchia idea di un Marte inadatto ad ospitare la vita, si basava principalmente su questi presupposti:

  • assenza di segni evidenti di forme di vita;
  • assenza di acqua liquida in superficie;
  • scarsa quantità di acqua disponibile anche sottoforma di ghiaccio;
  • assenza di segni evidenti di attività vulcanica e tettonica “recenti”;
  • assenza di un’atmosfera densa e spessa che potesse proteggere dalle radiazioni solari e dai raggi cosmici;
  • assenza di un campo magnetico sufficientemente forte a trattenere l’atmosfera.

Ciascuno di questi punti sembrava all’apparenza essere confermato dalle immagini raccolte dalle missioni Mariner e Viking.

Quarant’anni fa si pensava che Marte, una volta formatesi, avesse perso rapidamente il suo campo magnetico e la sua attività vulcanica e tettonica. Ciò avrebbe comportato una “rapida” (nell’ordine di un paio di centinaia di migliaia di anni) evaporazione dell’eventuale acqua liquida presente e, complice anche un drastico assottigliamento dell’atmosfera, a sua volta dovuto alla scomparsa del campo magnetico del pianeta. Impatti con altri corpi celesti minori, quali comete ed asteroidi (i cui segni erano e sono ancora visibili) avrebbero di fatto “sterilizzato” il pianeta, rendendolo così come ci appare oggi, appenda 700 milioni di anni dopo la sua formazione, quindi 3,7 miliardi di anni fa!

Negli ultimi quindici anni, ciascuno di questi punti è stato annichilito e cancellato dalle evidenze e dai risultati emersi dagli studi sui dati raccolti al suolo soprattutto dai lander, dai rover ma anche dagli orbiter inviati.

Studi scientifici compiuti dai maggiori centri di ricerca in tema di astronomia e astrobiologia, università e agenzie spaziali di tutto il mondo, hanno confermato che Marte non solo è stato un pianeta caldo ed umido durante molti periodi della sua storia (così come la Terra ha alternato “ere glaciali” a periodi più caldi, umidi e temperati), ma che tali periodi hanno garantito la presenza di grandi quantità di acqua allo stato liquido fino a periodi geologicamente (o addirittura) storicamente più recenti (alcuni studi collocano la presenza di grandi oceani e di acqua allo stato liquido fino a “soli” 200.000 anni fa, quando sulla Terra c’erano i Neanderthal).

Sappiamo che ciò implica necessariamente che il campo magnetico marziano non è dunque scomparso 3,7 miliardi di anni fa come si pensava prima, e che dunque anche l’azione di protezione dalle radiazioni dell’atmosfera marziana si è necessariamente protratta più a lungo di quanto si pensasse.

Abbiamo riscontrato i segni di un’attività vulcanica e tettonica risalente a “soli” 75 milioni di anni fa (per intenderci quanto sulla Terra c’erano i dinosauri.)

Sappiamo che i perclorati presenti nel terreno marziano, le radiazioni cosmiche e i raggi ultravioletti rendono “sterile” e tossico il terreno marziano soltanto nel primo millimetro della superficie.

Sappiamo che Marte ha enormi cavità e tunnel di lava in cui la vita potrebbe essere fiorita o si potrebbe essere rifugiata.

Sappiamo oggi che l’acqua liquida, sebbene in quantità modeste, scorra ancora oggi sul pianeta rosso. Sappiamo che l’acqua sul pianeta è praticamente ovunque, imprigionata appena sotto la superficie, sotto forma di ghiaccio finanche nelle zone equatoriali del pianeta.

I rover che stanno ancora esplorando il pianeta, hanno mostrato i segni lasciati nella sedimentazione delle rocce dall’acqua e da primitive forme di vita. Nei meteoriti marziani giunti sulla Terra abbiamo trovato le medesime tracce.

Sappiamo che nell’atmosfera marziana è presente il metano, la cui quantità varia ciclicamente. Questo gas, secondo la teoria tradizionale ormai obsoleta che vedeva l’assenza di campo magnetico già 3,7 miliardi di anni fa, non dovrebbe essere presente poiché la radiazione solare avrebbe dovuto disgregarne le molecole nel giro di poche migliaia di anni. Oggi si pensa che il metano sia presente non solo perché il campo magnetico marziano non è scomparso così presto, ma che addirittura il metano sia “prodotto” da organismi viventi presenti su Marte, così come il metano terrestre è generato da organismi viventi.

Insomma, tutte queste ricerche hanno dimostrato l’inattendibilità della vecchia “immagine” di Marte come pianeta morto, costringendo a rivalutare anche i risultati degli esperimenti fatti dalle sonde Viking, che avevano dimostrato, sebbene solo parzialmente, la presenza di forme di vita (oggi) sul pianeta rosso.

La consapevolezza di tutto questo cambia radicalmente tutto!

Se oggi sappiamo che Marte è stato, e probabilmente è ancora, ospitale alla vita, perché non prendere in considerazione la possibilità che questa possa essersi evoluta in forme più complesse e magari anche intelligenti?

Nei prossimi 5 o al massimo 7 anni assisteremo certamente all’annuncio ufficiale del ritrovamento della vita su Marte, così come abbiamo assistito nel 2016 a quello del ritrovamento dell’acqua in forma liquida (benché già dal 2004 la Nasa fosse in possesso delle immagini che dimostravano questa realtà).  Se, come detto, le prove di tutto questo sono già state frammentariamente pubblicate, i mass media e tutti coloro che si occupano della divulgazione scientifica non si “sbilanceranno mai” a favore di questa realtà se non dopo che una qualche “autorità” scientifica (Nasa in primis) non “sdoganerà” (per così dire) la cosa. Non abbiamo dubbi al riguardo, poiché è quello a cui abbiamo assistito per l’annuncio del ritrovamento dell’acqua liquida su Marte. Pubblicamente se n’è parlato soltanto dopo l’annuncio della Nasa e non prima, benché i dati ci fossero già.

C’è vita su Marte e le probabilità (o le evidenze) che ci siano, o ce ne siano state anche forme complesse o addirittura intelligenti, sono assolutamente elevate. L’accettazione di ciò che è possibile e di ciò che non lo è, di ciò che è vero e ciò che è falso è, come sempre, determinato dal grado di conoscenza e consapevolezza delle informazioni che ciascuno ha. C’è chi preferisce attendere e credere, senza la “fatica” di formarsi una propria idea, a ciò che viene detto dalle autorità, e chi invece preferisce sapere e farsi la propria idea sulla base delle informazioni ufficiali già disponibili, leggendo e studiando.

Tu da che parte stai?

Stefano Nasetti

Maggiori informazioni nel libro: Il lato oscuro di Marte - dal mito alla colonizzazione.

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

La scienza ha un problema di fake news

(Questo articolo è stato inserito e amplicato nel libro Fact-Checking, la realtà dei fatti, la forza delle idee)

Appena si parla di fake news, la maggioranza della popolazione pensa subito a improbabili teorie complottiste, a bizzarre dichiarazioni di politici al potere o all’opposizione in quel momento, o a informazioni fatte circolare apposta per convogliare traffico su siti internet a scopo commerciale.

È innegabile che esistano anche questo tipo di false informazioni, tuttavia la maggioranza delle false notizie è prodotta e alimentata dallo stesso sistema di potere che spesso sostiene di volerla combattere.

Il mondo della comunicazione, il web in special modo, è ormai invaso da informazioni spesso superficiali e sommarie, condivise da persone che non hanno alcun tipo di preparazione specifica a riguardo (non sto parlando di titoli di studio ovviamente) che si sentono tuttavia in grado di poter sentenziare circa l’attendibilità di un fatto o di un’informazione. I motivi che spingono queste persone a tenere questo comportamento possono essere vari. Alcuni agiscono in buona fede, sebbene colpevolmente incapaci di approfondire o discernere la veridicità dell’informazione. Preferiscono dunque più credere che sapere.

Altri, volendone fare salva la buonafede, sono vittime del proprio ego, della propria presunzione o del proprio istinto di asservirsi o allinearsi alla teoria prevalente o alla versione dei fatti diffusa dalle autorità, che gli impedisce di esaminare in modo critico la notizia in sé.

Tuttavia, quando parliamo di fake news, puntare l’indice verso queste persone appare un esercizio superficiale e semplicistico. Non sono queste le vere fake news dalle quali guardarsi.

Ci sono poi le opinioni e le idee personali che oggi strumentalmente, se non gradite, sono fatte passare per fake news. Ma la libertà di pensiero e di espressione non vanno confuse con le fake news. La possibilità di esprimere la propria opinione personale (non parlo di reati come calunnie e ingiurie) va sempre garantita e tutelata in uno stato che voglia definirsi (o abbia la presunzione di definirsi) democratico.

Le fake news da cui cercare di proteggersi sono quelle che hanno la finalità di ingannare le persone per tutelare un interesse specifico, per raggiungere un obiettivo predeterminato e per trarre un profitto economico o politico.

Quest’ultima categoria di fake news oggi ha un peso rilevante sull’intera comunicazione tradizionale, ciò nonostante ritenuta a torto e paradossalmente, invece la comunicazione più attendibile.

Talune comunicazioni delle Autorità (politiche, scientifiche, ecc), diffuse attraverso i mass media (mainstream) come Tv, giornali e riviste, possono certamente ricadere sotto questa categoria.

Siamo difatto abituati a credere che coloro che ci parlano (autorità politiche, scientifiche, giornalisti, ecc) attraverso questi mezzi, siano persone più preparate e informate di noi, che agiscono per il bene comune e collettivo (nel caso di Autorità politiche o scientifiche) o che cerchino di informare l’opinione pubblica di ciò che sta accadendo. La realtà dei fatti ci dice però che non è quasi mai così. Ciascuno di questi soggetti opera (probabilmente anche, ma non solo, in modo distinto dall’altro e senza alcun coordinamento superiore) con il principale intento di raggiungere il proprio individuale obiettivo.

Quest’attività certamente biasimabile, almeno dal punto di vista morale (se non, in alcuni casi, addirittura civilmente e penalmente e perseguibile) è quella che genera le vere fake news, contribuendo a creare quella “realtà” fittizia e menzognera, in cui gran parte della popolazione non è neanche consapevole di vivere.

Nei precedenti post ho già fatto accenno alle dinamiche riguardanti il funzionamento del sistema d’informazione (quello dei mass media) e di disinformazione (operato dalle autorità), attraverso l’attuazione sistematica, e protratta costantemente nel tempo, di tecniche comunicative ben note e di come queste influenzino la comune percezione anche di concetti apparentemente semplici, come quelli, ad esempio, di cosa sia bene e di cosa sia male, di chi siano i buoni e chi i cattivi.

A farla da padrone nell’orientamento dell’opinione pubblica e nella “creazione” di fake news per la tutela degli interessi privati, sono certamente gli interessi economici ancor prima di quelli politici, sempre più subalterni a questi ultimi.

Questo diffuso sistema d’interessi economici individuali ha ormai contaminato in modo pesante, ogni settore della nostra civiltà, facendo sì che ogni idea, ogni scoperta o innovazione possa minacciare in qualche modo tali interessi, venga osteggiata, sminuita, soppressa o declassata a fake news. Al contempo, lo stesso sistema di potere ha trovato modo di dare riconoscimenti di attendibilità e prestigio a reali fake news.

Anche il settore scientifico ha, nel corso del tempo, risentito di questo sistema di tutela degli interessi privati, perdendo quell’aura di oggettività e di attendibilità che comunemente gli era spesso (non sempre a ragione) riconosciuta.

La scienza, nell'immaginario collettivo, è sovente associata al progresso, all'innovazione. La storia insegna però, come quest'immagine della scienza, non corrisponda poi molto alla verità, non perché la scienza non persegua il sapere o la conoscenza, quanto piuttosto perché è gestita dagli uomini, e non tutti gli uomini hanno l'interesse ha cambiare lo stato delle cose. Quest'atteggiamento ha fatto sì che la scienza tenda a essere estremamente cauta quando si parla di nuove conoscenze o ipotesi, che possono mettere in discussione le teorie tradizionali. Tale comportamento è talmente radicato, che è possibile affermare che la scienza è molto più conservatrice che progressista.

L'altro aspetto che guida la ricerca scientifica oggi, è quello del denaro. Sono ormai pochi o rari, i ricercatori che possono svolgere ricerche per la vera comprensione dell'universo, del nostro posto in esso, delle forze che lo regolano o della vera storia della nostra civiltà. La maggioranza delle ricerche condotte oggi (e che hanno un eco mediatico adeguato) sono quelle riguardanti scoperte e invenzioni che, da lì a breve, potranno portare un qualche ritorno economico.

Non tutti i ricercatori poi sono aggiornati sulle ultime scoperte scientifiche, sia nel loro campo, sia in altri settori della scienza.

L’origine del problema delle fake news scientifiche è, infatti, molto più complessa di quanto si possa immaginare. A minare le fondamenta della credibilità scientifica è un cocktail d’interessi privati, variegati e stratificati, in cui le soluzioni originariamente create a tutela dell’affidabilità e dell’indipendenza scientifica sono divenute esse stesse, amplificatori e strumenti per la disinformazione e la creazione di fake news. Ma andiamo con ordine.

Nella nostra società moderna che basa gran parte della sua organizzazione su scienza e tecnologia, è divenuto molto complesso per ricercatori e scienziati poter emergere. Per comprendere a pieno la questione, dobbiamo innanzitutto mettere da parte il tradizionale, e ormai utopistico, pensiero che ogni scienziato persegua la conoscenza e il benessere dell’umanità prima di qualunque cosa. Non è assolutamente così. Gli scienziati oggi vanno considerati alla stregua di qualunque altro lavoratore, con gli stessi desideri di potere, fama e successo di qualunque altra persona. Anche per loro il primo pensiero è mantenere il proprio lavoro e portare uno stipendio a casa, per soddisfare le proprie necessità, bisogni e desideri.

Nel mondo odierno quindi, l’unico modo per uno scienziato di emergere e acquisire prestigio è cercare di ottenere la pubblicazione sulle riviste scientifiche specializzate, di più paper possibili e ottenere più citazioni possibili da parte dei propri colleghi.   

Nell’ultimo secolo, soprattutto dal secondo dopoguerra, la scienza ha provato a mantenere (o a conquistare) l’immagine di oggettività, imparzialità e quindi di credibilità, attraverso la creazione di un sistema di verifica imparziale delle nuove scoperte e dei nuovi dati, con l’instaurazione del processo chiamato peer-review (revisione paritaria). Il sistema consiste nel far verificare i risultati di un proprio studio da altri colleghi della stessa disciplina in modo da far emergere eventuali errori o incongruenze, con la finalità di garantirne l’attendibilità.

Le riviste scientifiche infatti, inizialmente accettavano di pubblicare uno studio scientifico solo una volta che questo era stato sottoposto a tale processo. La revisione paritaria da parte dei colleghi però, richiede sempre molto tempo, perché il controllo è fatto in modo gratuito e volontario dai colleghi, che si prestano a quest’attività solo nei ritagli di tempo. Oltretutto le riviste scientifiche lucravano (e lucrano tuttora) su tutta questa attività.

La pubblicazione accademica è un'industria redditizia per i player dominanti. Ad esempio il Gruppo RELX Unità di Elsevier, che ha circa 2.500 riviste, tra cui Cell e Lancet , realizzato più di 2 miliardi di sterline (pari a circa 2,6 miliardi di dollari) di fatturato solo nel 2016. L’insieme delle riviste della John Wiley & Sons, che pubblica Cancer, tra gli altri, ha guadagnato $ 853.000 nell'anno fiscale terminato nell'aprile 2017. Il loro modello di business consente margini operativi di circa il 30%. Questi player si procurano contenuti gratuiti basati su ricerche governative o finanziate privatamente, invitano gli accademici a rivedere i documenti gratuitamente, e poi rivendeno il lavoro a biblioteche universitarie e altre istituzioni a prezzi elevati.

Ciò significa escludere una considerevole fetta della comunità scientifica internazionale dai progressi scientifici. Non tutti gli enti governativi e le università infatti, hanno le stesse disponibilità economiche. Gli abbonamenti alle riviste o ai portali scientifici con accesso illimitato ai paper delle ricerche pubblicate, possono costare anche migliaia di dollari l’anno. Quindi non tutti gli istituti di ricerca destinano parte del loro budget per acquistare questi accessi. Per tale motivo ancora oggi, non tutti gli scienziati sono aggiornati sugli ultimi progressi scientifici del proprio settore.

Per ovviare a questo problema, agli inizi degli anni 2000, scienziati e studiosi hanno avviato il movimento per la creazione di portali per le pubblicazioni scientifiche ad accesso aperto, sperando di sfidare ciò che era percepito come un sistema di sfruttamento della ricerca scientifica (quell’appunto dell’editoria scientifica), al fine di apportare benefici al progresso e alla ricerca scientifica globale.

Sci-Hub è uno di questi portali, in grado di garantire la medesima qualità di revisione delle ricerche pubblicate con costi però più contenuti e dunque, pressoché accessibili a tutti. Sci-Hub si è dotato anche di un motore di ricerca interno, che riesce a indicizzare e a rendere disponibile qualunque paper scientifico (o quasi) in anche in modo gratuito.

Nel giugno 2017, l'American Chemical Society (ACS) ha vinto una causa contro Sci-Hub, accusato di fornire accesso illegale a milioni di pagine scientifiche a pagamento. ACS aveva presentato richieste per violazione del copyright, contraffazione del marchio e violazione del marchio. Il tribunale distrettuale della Virginia ha stabilito che Sci-Hub dovrà pagare ad ACS 4.8 milioni di dollari di danni.

All'inizio del 2017, Sci-Hub aveva perso un’altra causa contro la pubblicazione del già citato gigante dell’editoria scientifica Elsevier. In questo caso era stato comminato un risarcimento di 15 milioni di dollari in danni. Ma è improbabile che Sci-Hub pagherà una somma del genere, perché il neuroscienziato Alexandra Elbakyan, il suo fondatore, gestisce il sito dalla Russia, che è al di fuori della giurisdizione del tribunale. Una guerra d’interessi in cui, come vedremo tra poco, a rimetterci è l’attendibilità della scienza.

Queste sono solo gli ultimi sviluppi di una battaglia che va avanti da anni per lucrare sulla pubblicazione degli studi scientifici, tra chi li vorrebbe venderli a peso d’oro, e chi invece vorrebbe renderli accessibili a tutti.

Nel frattempo infatti, gli scienziati continuavano ad avere necessità di pubblicare in fretta i risultati delle proprie ricerche, e si trovavano sempre più costretti a sottostare ai diktat delle riviste scientifiche.

Tale situazione ha generato un ulteriore problema in ambito scientifico, quello della cosiddetta “crisi di riproducibilità”, vale a dire la presa di coscienza da parte della comunità scientifica dell’impossibilità di ripetere molti dei risultati pubblicati sulle riviste di settore. Un problema non da poco, che mette in crisi uno dei capisaldi della scienza moderna: la sua oggettività, garantita appunto (almeno a livello teorico) dalla possibilità di ripetere e verificare in ogni momento, i risultati di un esperimento.

Come dicevo, ciò è stato generato dalla cosiddetta publication bias, cioè la tendenza delle riviste scientifiche a pubblicare più facilmente i risultati positivi rispetto a quelli negativi. Pensiamo ad esempio, a uno studio che valuta l’efficacia di unna nuova terapia.

In un mondo ideale, la ricerca dovrebbe avere le stesse probabilità di essere pubblicata su un’importante rivista medica o più in generale scientifica, a prescindere dai risultati ottenuti. Anche perché un esito negativo (che dimostri cioè l’inefficacia di un nuovo trattamento) ha la stessa rilevanza scientifica di uno positivo, se non addirittura un’importanza maggiore, visto che indica l’inutilità della nuova terapia.

Nella realtà invece, le cose sono molto diverse: pubblicare risultati negativi è estremamente difficile. E questo influenza inevitabilmente alcuni ricercatori (la cui carriera spesso dipende dalla capacità di pubblicare continuamente nuovi studi), spingendo a ritoccare (più o meno volontariamente) i risultati, o ad abbandonare velocemente le ricerche che non hanno esito positivo, senza neanche tentare la strada della pubblicazione.

L’altro problema creato sempre dai canoni imposti dalle riviste specializzate è “l’hidden outcome switching”, ovvero la tendenza a cambiare l’obiettivo di uno studio dopo averlo portato a termine. Scienziati e ricercatori, schiacciati dalla logica del publish or perish (letteralmente pubblica o muori, una formula che indica la necessità di pubblicare a ritmo sostenuto per mantenere una posizione prestigiosa a livello universitario), molti ricercatori possono cedere però alla tentazione di ritoccare i risultati, cambiando in corso l’obiettivo di uno studio per garantire un risultato positivo, e quindi più facile da pubblicare. E proprio da atteggiamenti di questo tipo, ritocchi dei dati o dei protocolli sperimentali per facilitare la pubblicazione del proprio studio, nasce la crisi di riproducibilità.

Per sottrarsi a tale logica, molti ricercatori hanno cominciato a rivolgersi a riviste meno “esigenti”, le cosiddette riviste ad “accesso aperto”, nate per soddisfare le esigenze dei ricercatori. Infatti, mentre riviste scientifiche tradizionali fanno soldi con l'addebito delle tariffe di abbonamento a chi vuole accedere ai contenuti, le riviste ad accesso aperto spesso ribaltano questo modello, addebitando le tariffe degli autori, offrendo gratuitamente articoli ai lettori. Queste riviste scientifiche quindi pubblicano i risultati di studi scientifici dietro pagamento di un corrispettivo in denaro da parte degli autori. Pubblicare una ricerca scientifica diventa un po’ come acquistare uno spazio pubblicitario.

Nonostante queste riviste si definiscano scientifiche, da molti sono state definite “predatorie”, poiché sembrano pubblicare qualsiasi ricerca gli sia sottoposta, senza curarsi di processi di revisione paritaria. Nei casi ove questa è ufficialmente presente, viene “stranamente” portata a termine in tempi rapidissimi (1 o 2 settimane). Secondo molti, l’anomala velocità della peer-review a cui sono sottoposti questi studi, accettati dietro pagamento di un compenso da parte degli autori, mette in dubbio l’attendibilità degli studi stessi.

Secondo molti si tratta di vere e proprie fake news scientifiche che, poichè pubblicate su riviste considerate (o che si autodefiniscono) scientifiche, sono tuttavia considerate valide nonostante le perplessità riguardanti il processo di revisione e pubblicazione.

Basti pensare che lo scorso anno una ricerca scientifica volutamente assurda, che aveva per oggetto i “Midichlorian” di Star Wars (immaginari organismi simbionti che nel film erano i responsabili della “Forza”), è stata accettata e pubblicata da 4 delle 9 riviste scientifiche alle quali era stato proposto!

Ben tre riviste hanno pubblicato immediatamente la bufala. L’American Journal of Medical and Biological Research, dell'editore solo online SciE Pub (e che pubblicizza nella sua home page "il più alto standard di peer review") prima di pubblicare l'articolo richiedeva un pagamento anticipato di 630 dollari. Un altro degli editori, che ha accettato la pubblicazione senza neppure leggere l'articolo, è l’indiano MedCrave.

Non tutto ciò che è pubblicato nelle riviste predatorie è spazzatura. Ma la mescolanza della "cattiva scienza" con quella "buona" riduce il valore e la credibilità di tutti i risultati.

Sebbene non si possa affermare che tutte le ricerche pubblicate da queste riviste siano fake news scientifiche, la percentuale di quest’ultime è molto elevata, e dipende soprattutto dagli interessi che si celano dietro ad uno studio piuttosto che a un altro.

Gli interessi che girano attorno a queste ricerche, sono enormi, e non coinvolgono solo gli autori della ricerca (interessati a tenere elevato il numero delle proprie pubblicazioni scientifiche) o delle case editrici interessate a incassare il compenso pattuito per la pubblicazione.

Uno studio del 2015 sulla rivista BMC Medicine ha stimato i ricavi generati dal mercato dei predatori ad accesso aperto a 74 milioni di dollari, rispetto ai 244 milioni di dollari di altre rinomate riviste ad accesso apert,o e ai 10,5 miliardi di dollari che le riviste tradizionali fanno con gli abbonamenti globali. Secondo lo studio, si stima che almeno il 25% delle riviste ad accesso aperto possa essere classificato come predatorie.

Il fallace sistema che era nato con il nobile scopo di rendere i risultati della ricerca scientifica più liberi e accessibili a tutti in modo gratuito, è invece diventato uno strumento nelle mani dei grandi gruppi farmaceutici e delle lobby di potere, interessate a favorire la vendita di nuovi prodotti e/o a ostacolare il progresso scientifico per il mantenimento dello status quo.

Nel corso dell'ultimo anno, un team di giornalisti tedeschi ha condotto un'indagine sotto copertura riguardante una vasta rete sotterranea di riviste scientifici e conferenze fake per promuoverne i dati pubblicati.

Il team ha analizzato oltre 175.000 paper pubblicati queste “riviste predatorie”.  Nel corso dell’indagine (raccontata poi nel documentario ”Inside the Fake Science Factory”), i ricercatori hanno scoperto centinaia di articoli, prodotti da accademici di istituzioni leader nel loro settore, oltre a una notevole quantità di ricerche finanziate da aziende farmaceutiche, produttori di tabacco e altre aziende. L'anno scorso, si stima che una falsa istituzione scientifica gestita da una famiglia turca, abbia guadagnato oltre 4 milioni di dollari (3,5 milioni di euro) organizzando conferenze e pubblicando finte ricerche sulle riviste predatorie di sua proprietà.

L’organizzazione World Academy of Science, Engineering and Technology (WASET) (che sul suo sito ha un elenco sterminato di conferenze organizzate in tutto il mondo riguardanti quasi tutte le discipline accademiche immaginabili in programma addirittura fino al 2031) in collaborazione con la OMICS Publishing Group, probabilmente il maggiore editore predatorio al mondo sono i soggetti su cui si sono concentrate le indagini dei giornalisti tedeschi.

Spulciando nei siti di OMICS e WASET, hanno scoperto decine di migliaia di abstract per paper scientifici fake, quasi 15.000 di questi abstract provenivano dall’India, ma gli studi provenienti dagli Stati Uniti sono la seconda voce più numerosa, con circa 10.000 paper sottoposti a OMICS e altri 3.000 ai journal di WASET.

Un numero preoccupante di questi accademici proviene anche da università americane d'élite. Eckert, uno dei principali artefici di questa indagine, assieme ai suoi colleghi ha scoperto 162 paper presentati a riviste WASET e OMICS provenienti da Stanford, 153 da Yale, 96 dalla Colombia e 94 da Harvard negli ultimi dieci anni. Eppure, secondo Krause, un altro dei giornalisti tedeschi, ”la portata del fenomeno si estende ben oltre il mondo accademico.”

Come illustrato da Eckert e dai suoi colleghi, il sistema della pubblicazione di falsi studi sulle riviste predatorie sono utilizzate per pubblicare studi e ospitare conferenze finanziate anche da grandi aziende, tra cui la produttrice di tabacco Philip Morris, l'azienda farmaceutica AstraZeneca e l'azienda per la sicurezza nucleare Framatone. Quando le riviste predatorie pubblicano le ricerche di queste aziende, queste possono affermare che si trattano di studi sottoposti a “peer review" e quindi conferirgli un'aria di legittimità.

Infatti, nonostante queste evidenti dubbi riguardo l’operato delle riviste predatorie, Bloomberg Businessweek ha scoperto che i ricercatori delle principali case farmaceutiche, tra cui AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Gilead Sciences, e Merck, presentano studi alle riviste di Omics per la pubblicazione, e partecipano alle loro conferenze. Pfizer, il più grande produttore di farmaci degli Stati Uniti, ha pubblicato almeno 23 articoli dal 2011 sulle riviste OMICS.

Dalle indagini sopra esposte, non è emerso in modo chiaro se le case farmaceutiche stiano ignorando intenzionalmente ciò che sanno della reputazione di Omics (ma non è difficile da credere), o se siano genuinamente confusi tra la profusione di riviste non credibili. Tuttavia nessuna delle aziende citate è stata disposta a fornire spiegazioni, dopo la pubblicazione dei risultati di queste indagini giornalistiche.

Il dubbio che utilizzino strumentalmente queste riviste, pagando per far pubblicare studi fake da cui trarre vantaggio per vendere farmaci inefficaci, è elevato.

Come detto, infatti, mentre gli accademici pubblicano per mantenere o acquisire prestigio per le loro carriere, le aziende farmaceutiche hanno invece la necessità di comunicare con i medici. Pubblicazioni di alto livello come il Il New England Journal of Medicine e il Lancet, garantiscono un elevato grado di visibilità e influenza. Tuttavia, pubblicazioni su riviste con standard più bassi come quelli di Omics, offrono alle aziende la possibilità di pubblicare studi che non sono sufficientemente innovativi per le riviste principali o per coloro che preferirebbero non essere soggetti a rigorosi controlli, sia per farli uscire prima, sia per evitare i controlli.

Tanto per citare un esempio, un documento Pfizer sul carico finanziario della lombalgia cronica, pubblicato nel 2014 su Omics Journal of Pain & Relief, suggerisce che l'azienda farmaceutica potrebbe aver avuto interesse a saltare i processi di revisione delle riviste tradizionali. Sulla base di un sondaggio di appena 106 persone, nello studio la Pfizer ha concluso che i costi diretti e indiretti di forti dolori alla schiena variavano da $ 11.800 a $ 25.051 per paziente all'anno. Tali cifre potrebbero essere utilizzate per giustificare il prezzo di un farmaco per i pazienti e i loro piani sanitari. Il New England Journal of Medicine, ad esempio, pubblica raramente studi sui costi, perché sono notoriamente inaffidabili. "È molto semplice portare i risultati alla conclusione che si desidera", afferma John Ioannidis, professore di medicina, scienza dei dati biomedici e statistica a Stanford. Il documento Pfizer era "non molto trasparente, quindi è difficile vedere se i loro calcoli sono accurati." "Le persone possono essere danneggiate perché dipendiamo da ciò che leggiamo nelle riviste mediche per guidare l'assistenza ai pazienti”.

AstraZeneca Plc, il secondo più grande produttore di farmaci negli Stati Uniti, ha pubblicato almeno cinque articoli sui giornali di Omics dal 2011, incluso uno in Medicina interna: accesso aperto a un farmaco sviluppato con Bristol-Myers Squibb Co. chiamato Farxiga, che regola i livelli di zucchero nel sangue. Lo studio ha rilevato che Farxiga offriva un controllo del peso superiore rispetto ad altri regimi di diabete. Questi risultati - sebbene forse validi - non sono stati controllati dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti, quindi non è un reclamo che può essere fatto sull'etichetta o nella pubblicità. Tuttavia, i medici che s’imbattono in questo studio, potrebbero presumere che sia stato rigorosamente sottoposto a revisione paritetica, ed essere influenzati a prescrivere Farxiga rispetto a un farmaco concorrente. Gli editori della rivista non hanno risposto alle richieste di specificare chi o se qualcuno avesse revisionato lo studio su Farxiga.

Nel migliore dei casi, qualora volessimo propendere per la buonafede (ma esiste ancora in questo mondo?) le aziende hanno fretta e sono disposte ad accettare di pubblicare su riviste di livello inferiore. Questo perché vogliono che lo studio, anche se non verificato e quindi attendibile, abbia una citazione. Vogliono che qualcuno sia in grado di farvi riferimento e farlo “diventare ufficiale”.

In questo quadro, pensare che tutti i principali colossi della farmaceutica siano in buona fede (considerando anche il curriculum non immacolato di alcune di esse) è difficile da poter sostenere. Soprattutto se consideriamo che tutti i produttori di farmaci hanno alimentato l'ascesa di soggetti predatori come Omics, anche sponsorizzando e partecipando a conferenze. le sponsorizzazioni ricevute dalle case farmaceutiche generano il 60% delle entrate di Omics. Da fotografie diffuse dalla stessa Omics, scattate alle conferenze a partire dal 2010, come sponsor sugli schermi dietro gli altoparlanti figurano i nomi di Novartis, Axis Clinicals e Agilent Technologies Novartis, Merck, Eli Lilly, e la ormai celebre produttrice di vaccini GlaxoSmithKline.

Insomma, risulta che le principali e vere fake news dalle quali guardarsi, siano generate dallo stesso mondo scientifico accademico e dalle stesse lobby di potere, spesso colluse con la politica, che poi dichiara di voler fare guerra alle fake news.

Le indagini qui esposte e che hanno avuto come oggetto principalmente il mondo della medicina, sono estendibili a tutti gli altri campi della scienza, dall’astronomia all’elettronica, dalla fisica all’archeologia, passando per ogni altra disciplina. Questo perché gli interessi personali (dei ricercatori) o dei gruppi di potere, sono presenti in ogni settore e ciò accade da sempre, non solo ora. Alcune assurde teorie considerate scientifiche, benché prive di prove oggettive e inconfutabili (come ad esempio nel caso dell’evoluzione darwiniana), elaborate secoli fa, continuano a sopravvivere così come le conosciamo, solo perché sostenute dal potere dominante.

“Viviamo in un’epoca di continue contrapposizioni. La facilità di accesso alle informazioni se da un lato ha consentito la diffusione della conoscenza, stimolando la riflessione e la formulazione del libero pensiero, dall’altro ha amplificato anche la disinformazione. Se da un lato quindi, abbiamo oggi la possibilità di avanzare una critica intellettualmente onesta delle versioni ufficiali della storia che vengono proposte, dall’altro l’eccesso di controinformazione è divenuto esso stesso una disinformazione, perché spesso guidato non da una sana e onesta ricerca della verità, quanto invece dalla smania di andare strumentalmente contro.

Il processo sopra sommariamente riassunto, ha causato un’elevata contrapposizione tra chi oggi si schiera in difesa delle tradizionali teorie dominanti, per la conservazione dello status quo, e chi invece propone un’analisi critica delle stesse, alla luce delle nuove conoscenze.

Schierarsi dall’una o dall’altra parte in modo preconcetto, è sempre sbagliato.

Le teorie ufficiali non sono necessariamente vere o necessariamente false, solo perché sono le versioni proposte da una qualche autorità, scientifica, religiosa o politica che sia. Al contempo, il medesimo discorso si può fare per le cosiddette ipotesi alternative. Quest’ultime non sono necessariamente false solo perché sono formulate da chi non ha la stessa autorità, benché abbia invece, in alcuni casi, maggiore autorevolezza, né necessariamente vere solo perché sono contro le teorie tradizionali.”

La lotta per contrastare le fake news, comprese quelle scientifiche, non passa per l’attendibilità della fonte o dell’autorità che ne sostiene meno la correttezza, ma dalla valutazione della notizia in sé, cercando di acquisire il più alto numero d’informazioni per poi confrontarle e valutarle.

Se la scienza vorrà riacquistare quell’aura di oggettività che in passato gli era riconosciuta, dovrà passare necessariamente per la massima trasparenza, sempre e comunque. Chi si rifiuta di fornire spiegazioni o dati oggettivi coerenti con ciò che afferma o che tenta di sviare, facendo ricorso al proprio potere per imporre una la sua verità, sta certamente nascondendo una fake news.

Per approfondire questo tema, clicca qui

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore

Fonti:

https://www.bloomberg.com/news/features/2017-08-29/medical-journals-have-a-fake-news-problem

https://motherboard.vice.com/it/article/3ky45y/centinaia-di-ricerche-di-harvard-yale-e-stanford-sono-state-pubblicate-su-riviste-accademiche-fake

https://motherboard.vice.com/it/article/8xajk5/un-paper-sui-microbi-della-forza-di-star-wars-e-finito-su-4-riviste-scientifiche

https://www.wired.it/scienza/lab/2017/08/25/registered-report-nuovo-studio-scientifico/

https://www.sciencemag.org/news/2017/11/court-demands-search-engines-and-internet-service-providers-block-sci-hub

 

 

 

Continua...

Le prove di un nuovo programma spaziale segreto sugli UFO

Un'immagine dell'UFO avvistato dai militari nel 2004 (Clicca sull'immagine per il video)

Lo scorso dicembre, il New York Times ha pubblicato le evidenze documentali dell’esistenza di un programma segreto del Dipartimento della Difesa americano da 22 miliardi di dollari, che ha indagato sulle segnalazioni di oggetti volanti non identificati per circa un decennio.

Funzionari del programma, iniziato nel 2007,hanno molti studiato video di incontri tra oggetti sconosciuti e aerei militari americani.  Tra i report analizzati nell’ambito dell’Advance Aerospace Threat Identification Program, questo il nome del programma segreto, c'era un video che è stato pubblicato qualche mese fa, nell’ambito del FOIA (Freedom Of Information Act). Il video che risale al 2004, raffigura un oggetto bianco e ovale delle dimensioni di un aereo commerciale, inseguito da due caccia F/A-18F decollati dalla portaerei Nimitz, al largo della costa di San Diego, in California.

Nell’intervita rilasciata al New York Times il pilota in pensione David Fravor, che stava pilotando uno dei caccia quel giorno ha spiegato che: "Non aveva mai visto niente decollare così. Un minuto era qui, e quello dopo era sparito". L’oggetto si muoveva ad alte velocità e, apparentemente, non aveva alcun mezzo di propulsione.

Recentemente un team di giornalisti di Las Vegas, coordinati dal noto giornalista esperto del fenomeno UFO George Knapp, è riuscito ad ottenere un documento13 pagine [PDF] preparato dai militari, che analizza ciò che è successo quel giorno nel 2004.

Nel rapporto si legge di come l'AAV (Anomalous Aerial Vehicle) avvistato dai due piloti di F18 fosse riuscito a ”discendere molto rapidamente” da un'altezza di circa 60.000 piedi fino a circa 50 piedi nel giro di pochi secondi. Inoltre, ”si librava o manteneva una posizione stabile sul radar per un breve periodo di tempo per poi allontanarsi ad alta velocità e con velocità di rotazione elevate”.

La relazione illustra nel dettaglio anche altre caratteristiche osservate nell’oggetto volante non identificato che, tra le altre cose, era stato avvistato da un'altra portaerei al largo della costa californiana già ”in tre occasioni diverse” nei giorni immediatamente precedenti la sua intercettazione da parte degli F18, come si evince dal video.

Secondo quanto riportato dai militari, l'aereo era capace di "accelerazioni estreme, capacità aerodinamiche e propulsione” e non appariva sui radar dei militari, e ”aveva dimostrato la capacità di 'mascheramento' o diventare invisibile all'occhio umano o all'osservazione umana” e ”possibilmente dimostrava una capacità molto avanzata di operare sott'acqua completamente non rilevabile dai nostri sensori più avanzati"

Il rapporto si legge come uno dei membri di alto livello dell'equipaggio, presente sulla portaerei con 17 anni di esperienza nel settore militare, avesse rilevato che l'AAV mostrava le caratteristiche di un missile balistico. Infatti, il motivo per cui il sistema radar della portaerei non era riuscito a localizzare l'oggetto, era che il radar era stato impostato per il monitoraggio degli aeromobili convenzionali, per cui quando l'oggetto è apparso sul radar è stato rilevato come un bersaglio falso. Secondo il report, ”Se il radar fosse stato configurato in una modalità per il tracciamento dei missili balistici, probabilmente avrebbe avuto la capacità di tracciare il valore AAV

Secondo il rapporto, uno dei piloti inviati per indagare sull'oggetto segnalato, ha riportato di avere avvistato un qualcosa di anomalo nell'oceano calmo. Il pilota ha riferito che il ”disturbo sembrava avere 50-100 metri di diametro e di forma circolare” e che gli ricordava “qualcosa che si sommergeva rapidamente sotto la superficie come un sottomarino o una nave che affondava.”

Tuttavia ”È possibile che il disturbo sia stato causato da un AAV, ma che l'AAV sia stato ”coperto” o risultasse invisibile all'occhio umano,” conclude il rapporto. ”In nessun momento, l'AAV è stato considerato come una minaccia per il gruppo tattico. Infine, non avevano mai visto nulla di simile né prima né dopo”.

Alcuni dei militari coinvolti giurano che ciò che avevano visto fosse di origine extraterrestre.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Marte: la Nasa mente!

 

 Da decenni esistono teorie secondo le quali la Nasa mentirebbe su qualsiasi cosa, dai finti allunaggi delle missioni Apollo, ai filmati della Stazione Spaziale internazionale. Esistono molti ricercatori che hanno fornito indizi o prove apparentemente convincenti a conferma di questa tesi. Negli ultimi anni però, il vero fulcro dell’attenzione mediatica riguardo alle presunte bugie della Nasa, si è concentrata soprattutto su quello che è divenuto il principale obiettivo di tutte le agenzie spaziali, nonché delle principali missioni spaziali cioè Marte.

Da oltre vent’anni la Nasa diffonde quotidianamente dai propri siti, le fotografie inviate dalle numerose sonde (orbiter, lander e rover) giunte sul pianeta rosso.

Moltissime delle foto pubblicate, benché palesemente ridotte di qualità, evidenziano tracce di possibili forme di vita, passata e presente. Spesso i ricercatori rielaborano le foto, aumentando o diminuendo i contrasti, migliorando la messa a fuoco nel tentativo di “ripristinare” qualitativamente le condizioni originarie delle fotografie. Ma ciò presta il fianco alla difesa di chi sostiene che la Nasa non nasconderebbe nulla perchè nelle foto originali e non "rielaborate", non ci sarebbe nulla che faccia realmente pensare a forme di vita o alla presenza di civiltà passate sul pianeta rosso. Per tutte queste persone, le foto mostrano semplicemente delle rocce che, sebbene abbiano una forma bizzarra, rimangono rocce.

L’idea di un Marte inospitale e inadatto alla vita è radicalmente cambiata negli ultimi anni presso la comunità scientifica ufficiale, nonostante ancora pubblicamente si continui a propagandare la vecchia visione del pianeta rosso. La nuova visione di Marte, non pregiudica la possibilità paventata da tutti questi ricercatori alternativi, ma sebrerebbe addirittura dargli maggiore credibilità.

La questione merita certamente un serio approfondimento che sarà al centro del mio lavoro editoriale di prossima pubblicazione. Questo perché per farsi una propria idea sulla vicenda Marte, non è sufficiente fermarsi alle apparenze o alle dichiarazioni ufficiali, ma è necessario approfondire andando a verificare gli studi scientifici pubblicati sulla base dei dati forniti dalle sonde inviate sul pianeta rosso.

Nel frattempo però, quando ci si imbatte in determinate fotografie ufficiali, non è possibile sottrarsi dal cominciare a farsi una propria idea, ponendosi, come al solito, le opportune domande.

Risalendo alle foto originali pubblicate sul sito della Nasa e osservando le foto “originali” (senza cioè alcuna rielaborazione) ciascuno può farsi la propria idea riguardo al fatto che ciò che è ritratto in molte di esse, siano realmente semplici rocce o invece tracce o resti di civiltà passate o forme di vita ancora oggi presenti.

Purtroppo finché questi oggetti si trovano al suolo, risultano interpretabili (non sempre ovviamente).

Questa volta però, l’oggetto sconosciuto ritratto non si trova nella sabbia o tra le rocce, ma nel cielo!

Le fotografie scattate dal rover Curiosity il 20 gennaio 2018, sono presenti a questo link che rimanda al sito della Nasa. Si tratta di foto scattate in sequenza in cui si vede un oggetto volante o una creatura volante, che si sposta orizzontalmente nel cielo di fronte al rover.

Non è la prima volta che nelle foto di Marte pubblicate dalla Nasa, vengono notati oggetti nel cielo. Negli altri casi però, gli oggetti erano molto piccoli e apparentemente lontani, tanto da far ritenere in alcuni casi, che si potesse essere trattato di semplici granelli di polvere sull’obiettivo della telecamera. Questa volta invece, l’oggetto è molto più grande, ha una forma ben definita e non si trova sull’obiettivo della fotocamera.

Al momento su Marte non volano droni (i primi droni voleranno su Marte non prima del 2020) e dalla superficie marziana, così come accade sulla Terra, non è possibile scorgere i vari orbiter inviati in questi anni, che fotografano Marte dall’alto. Dunque cos’è ciò che vediamo ritratto nella foto che vola nel cielo di fronte al rover Curiosity?

Le possibilità sono due: o su Marte ci sono forme di vita, o le immagini “marziane” pubblicate dalla Nasa sono un falso, poiché scattate sulla Terra e non sul pianeta rosso. Comunque la si voglia pensare (ciascuno sceglierà la propria versione) la conclusione, in attesa di eventuale e coerenti spiegazioni ufficiali, al momento appare una sola: la Nasa mente su ciò che realmente sappiamo su Marte!

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore

 

Continua...

Tracce di un'antica globalizzazione

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista ARCHEO MISTERI MAGAZINE nel numero di Maggio 2021)

Viviamo in un modo globalizzato in cui per noi è ormai abbastanza semplice comunicare con ogni luogo della Terra. Con altrettanta facilità siamo in grado di spostarci sull’intera superficie del globo.

Ma se per noi abitanti del XXI secolo, tutto questo è quasi scontato, non lo era per le antiche civiltà del passato, “confinate” in una limitata e circoscritta area geografica, almeno fino alla fine del XV secolo, quando Colombo nel 1492, mettendo piede nel centro America, diede inizio all’epoca delle grandi esplorazioni e al primo contatto tra il mondo europeo, medio-orientale e le Americhe.Questo almeno, è quello che ci dice la storia ufficiale. Ma è realmente così?

Esistono prove tangibili che possono far supporre che alcune civiltà già nel passato, possano aver compiuto traversate oceaniche per colonizzare nuove terre o intrattenere rapporti commerciali con altre popolazioni indigene lontane?

Sappiamo con certezza che viaggi in America erano stati fatti già secoli prima da cavalieri templari e vichinghi. Ne sono state trovate inequivocabili tracce nel continente Nord americano. Su questo ormai anche gli storici tradizionali concordano. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, sono emerse altri indizi che ci possono far supporre che questi collegamenti o contatti tra antiche civiltà, fossero presenti ancor prima.

Esiste infatti, un’ampia casistica di analogie costruttive, iconografiche ed anche mitologiche, che fanno supporre che molte antiche civiltà dell’area mesopotamica e del bacino mediterraneo, fossero in contatto o avessero una “matrice” ovvero origine culturale comune alle civiltà del centro America. La storia ufficiale però non considera queste analogie come prova di un possibile contatto, spiegandole come semplici coincidenze. Ma siamo sicuri che la storia ufficiale sia corretta? Ci sono elementi più tangibili che possono far supporre che sia la versione della storia ufficiale ad essere sbagliata? Quali sono gli elementi che sono emersi in questi anni e che possono confermare l’esistenza di contatti tra civiltà passate o tentativi di esplorare il globo da parte di alcune di esse?

Esistono certamente elementi che vanno oltre la semplice possibilità che si tratti di analogie casuali. Ad esempio, così come gli egizi, alcune culture sudamericane utilizzavano un processo di mummificazione per la conservazione dei corpi dei defunti.

Un altro indizio sconcertante, riguardo un possibile contatto già in un remoto passato tra culture distanti migliaia di chilometri, fu portato alla luce dalla ricercatrice tedesca Balabanova. L’archeologa scoprì che le mummie egizie contenevano nicotina e cocaina, sostanze originarie del Sudamerica, che non potevano essere presenti, secondo la scienza ufficiale, in Africa e in Europa prima di Colombo. L’indagine fu ripetuta su moltissime mummie ed è stata confermata sopra ogni dubbio.

Sembra dunque che già la civiltà egizia abbia attraversato l’oceano Atlantico, e non solo. È probabilmente che gli egizi abbiano attraversato anche il Pacifico dal momento che in Australia sono state ritrovate strutture piramidali ( ma questo è ormai un qualcosa che stiamo scoprendo essere presente in tutto il globo) e addirittura dei geroglifici.

I geroglifici sono stati ritrovati nel 1900, nel Parco Nazionale di Brisbane Water e, secondo diversi archeologi e ricercatori, questi geroglifici risalirebbero alle prime dinastie egizie. Gli scribi che hanno creato queste incisioni lo avrebbero fatto con estrema precisione, e avrebbero adottato anche alcune variazioni “grammaticali” che non erano nemmeno presenti in testi geroglifici egizi fino al 2012. Ovviamente trattandosi di una scoperta potenzialmente rivoluzionaria, non mancano i pareri e le opinioni di altri egittologi che invece sostengono si tratti di un falso. Tuttavia in Australia, oltre alle citate strutture piramidali, sono state ritrovate anche diverse statuine raffiguranti scarabei oltre ad una statua che ricorda un babbuino, creatura sconosciuta in Australia. Certamente, se i geroglifici fossero veri, sarebbe la prova inequivocabile che le antiche popolazioni erano in grado di spostarsi per l’intero globo.

Ci sono evidenze poi, che questo fenomeno abbia riguardato anche altri popoli oltre agli egizi. Risulta infatti, che ci siano anche altri luoghi nel mondo in cui sono state ritrovate scritture proprie di civiltà distanti migliaia di chilometri.

Nella seconda metà del secolo scorso, nella località di Chua, a 70 chilometri da La Paz, presso il lago Titicaca, venne ritrovato da alcuni agricoltori, un reperto archeologico che ancora oggi fa discutere in quanto ritenuto da molti un Oopart. Il reperto oggi noto con il nome di Fuente Magna, è rimasto dimenticato e non studiato nei magazzini del museo archeologico della cittadina boliviana per oltre 25 anni. Soltanto nel 1995, durante le operazioni d’inventario di tutti i reperti esposti e non, presenti nella piccola struttura museale, rispuntò fuori il reperto, attirando la curiosità degli addetti ai lavori.

Il Fuente Magna è sostanzialmente un vaso, molto simile ad una enorme ciotola, su cui sono presenti bassorilievi zoomorfi nella parte esterna, e una serie di scritture e incisioni nella parte interna, accompagnate quest’ultime, da una solitaria figura zoomorfa.Il vaso è stato datato e risulta risalire al 3.500 a.C. Questa datazione assai più antica di quella riguardante le varie civiltà sudamericane (secondo la storia e l’archeologia ufficiale, la regione boliviana non conobbe forme di civiltà evolute fino alla seconda metà del secondo millennio a.C., periodo al quale viene fatta risalire la prima fase di costruzione della città di Tiahuanaco nel 1.200 a.C. circa), risulta ancora più particolare se si tiene conto che, parte delle iscrizioni presenti nella parte interna del manufatto, sono scritte con caratteri sumerici o proto sumerici. L’identificazione univoca di questo tipo di scrittura è stata eseguita da archeologi tradizionali, quindi in questo caso non c’è alcun dubbio sull’autenticità della scrittura, mentre si potrebbe eventualmente discutere su come questo reperto di fattezze sumere, possa essere arrivato lì.

Nel 1960 poi, nel sito di Pokotia, a circa 2 chilometri dalla città di pietra di Tiahuanaco,in Perù è stata ritrovato un monolite in pietra di fattezze antropomorfe, alta circa 170 cm che riporta iscrizioni nella stessa lingua (proto sumerica) presente sul Fuente Magna. Sembra quindi che, ancor prima degli egizi, anche i Sumeri fossero riusciti, forse casualmente, ad attraversare l’Atlantico.

La teoria della scoperta occasionale sembra supportata dal fatto che i popoli antichi, in questo caso i Sumeri, erano buoni naviganti e potrebbero aver circumnavigato l’Africa partendo dal Mar Rosso e dirigendosi inizialmente verso il Capo di Buona Speranza.

Una volta giunti presso le isole di Capo Verde però, i venti contrari (ovvero gli alisei), li avrebbero spinti verso il Brasile e così sarebbero giunti inizialmente in Amazzonia. Secondo questa teoria, il secondo popolo di navigatori che giunse occasionalmente nelle Americhe, furono i Fenici, che però lasciarono nel continente sud americano forse molte più evidenze archeologiche e, anche in questo caso, tracce “linguistiche”.

Uno dei primi sostenitori della teoria della presenza antica dei Fenici in Brasile fu il professore di storia austriaco Ludwig Schwennhagen (XX secolo), che nel suo libro “Storia antica del Brasile”, citava gli studi di Umfredo IV di Toron (XII secolo). Secondo quanto riportato nel libro di Schwennhagen, Umfredo IV aveva descritto i viaggi del re Hiram di Tiro (993 a.C.), e re Salomone di Giudea (960 a.C.) nelle lingue locali. Secondo Schwennhagen la lingua Tupi Guaraní avrebbe la stessa origine delle lingue medio-orientali e, in particolare mostrerebbe molte similitudini con la lingua sumera.

È possibile citare, come evidenze archeologiche a sostengno di questa tesi, la Pedra di Gavea e la Pedra d o Ingá. 

La prima, ubicata presso Barra da Tijuca nello Stato di Rio de Janeiro, riporta dei petroglifi che sono stati parzialmente decifrati dallo studioso Bernardo de Azevedo da Silva Ramos così: “Qui Badezir, re di Tiro, figlio più vecchio di Jetbaal”. L’iscrizione risalirebbe quindi all’incirca all’840 a.C., in quanto Jetbaal regnò fino all’847 a.C

La Pedra do Ingá, invece, si trova nello stato di Paraiba, in Brasile ed è un enorme masso orizzontale lungo circa 24 metri e alto 3 metri. In totale vi sono più di 450 disegni incisi nella roccia. La maggioranza di queste incisioni sono apparentemente astratte, ma secondo alcuni ricercatori avrebbero una lontana affinità con la lingua ittita.

Per rimanere in tema di scritture geroglifiche, c’è poi da citare l’analogia (vedi l’immagine all’inizio dell’articolo) tra la scrittura Rongorongo della civiltà Rapanui dell’isola di Pasqua con quella delle civiltà che abitavano la valle dell’Indo. La scrittura Indus della civiltà Harappa, utilizzata tra il XXVI e il XX secolo a.C. nella Valle dell’Indo, attuale Pakistan, riportata su vari “sigilli” trovati nei pressi di Mohenjo-daro, presenta sorprendenti somiglianze con la scrittura che si sviluppò sull’Isola di Pasqua. Qui le similitudini sono evidenti anche agli occhi di un profano.

È importante sottolineare che si tratta di civiltà distanti nel tempo oltre duemila anni e separate dall’oceano indiano e pacifico. Forse, la civiltà che sorse nella Valle dell’Indo, per motivi di natura commerciale, iniziò a navigare in ogni direzione. Possiamo verosimilmente ipotizzare che forse si spinsero nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, fino a giungere proprio sulla misteriosa Rapa Nui, dove lasciarono tracce evidenti del loro passaggio.

Se per spiegare le analogie architettoniche e mitologiche tra civiltà del passato è possibile, sebbene personalmente il tutto mi sembri semplicistico e poco probabile, avanzare l’ipotesi che si tratti di semplici coincidenze, quando si trovano analogie linguistiche tutto cambia, perché la lingua è il prodotto di una moltitudine di fattori, in cui quelli locali hanno un peso maggiore. Direi che le analogie linguistiche, sommate a tutte le altre riscontrate (architettoniche, iconografiche, mitologiche, ecc) siano sufficienti per porsi quantomeno la domanda riguardo la correttezza della storia così come ci viene raccontata da sempre.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore

Guarda il video sull'argomento publicato dal canale Youtube  Misteri Channel Show

 

 

 

Continua...

Il contatto alieno non fa paura

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista UFO INTERNATIONAL MAGAZINE nel numero di Maggio 2021)

La maggioranza della popolazione mondiale è cresciuta in una cultura che per millenni ha sostenuto e propagandato l’idea che l’uomo è l’unica forma di vita nell’universo, interpretando le storie di un eventuale contatto alieno avvenuto ripetutamente nel passato in diverse civiltà e in diversi luoghi del globo, come storie di fantasia, relegandola a pura e semplice mitologia.

Nonostante il dibattito sulla vita extraterrestre e sulla pluralità dei mondi risalga addirittura al 600 a.C. ai tempi di Talete, e che tutte le civiltà del passato abbiano chiaramente fatto riferimento, nei propri miti, alla discesa dal cielo di esseri delle stelle, la visione antropocentrica del mondo e dell’universo stesso ha prevalso sulla spinta soprattutto delle religioni monoteiste, con particolare riferimento alle elaborazioni teologiche del cristianesimo, dell’islamismo e dell’ebraismo.

Dopo centinaia di anni, questa idea è divenuta un dogma ,benché il dibattito sulla possibile esistenza di altre civiltà intelligenti non sia stato mai, nel corso dei secoli, del tutto sopito. Quando, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, è tornato alla ribalta l’argomento extraterrestre, è stato inevitabile che questo fosse vissuto in modo negativo.

Al netto delle opinioni sinceramente poco possibiliste di qualcuno, dei meno rispettabili proclami e dichiarazioni diffamatorie di alcuni, e quele opportunistiche e saccenti di altri, tutte le persone che hanno preso in considerazione questa apparentemente irrealistica possibilità, hanno certamente vagliato il tutto con un non biasimabile senso di timore. Se da un lato l’idea di entrare in contatto con altri esseri intelligenti poteva affascinare, dall’altro i timori prendevano il sopravvento. La domanda che su tutte alla fine finiva per prevalere era: questi alieni verranno in pace?

D’altro canto tendiamo legittimamente ad aspettarci che gli altri si comportino come (se non peggio) abitualmente ci comportiamo noi, e l’essere umano, così come dimostra la storia sia passata sia presente, non è certo un essere pacifico.

Nei testi sacri delle stesse religioni monoteiste che hanno contribuito ad escludere l’esistenza di altri esseri intelligenti nell’universo, è evidente come gli uomini (un po’ per indole e un po’ per eseguire gli stessi dettami del presunto “Dio”), sono protagonisti di battaglie, conquiste e stermini che vanno ben oltre la semplice volontà di prevaricare altri individui. Questi scritti ci narrano di crudeltà perpetrate su altri uomini, donne, bambini, animali e cose, crudeltà che non può essere giustificata e compresa come normale e logica conseguenza della lotta alla sopravvivenza. Se l’indole umana si è rivelata tutt’altro che pacifica e disinteressata, come possiamo immaginare che altre creature sconosciute lo siano?

Va da sé che l’eventuale contatto extraterrestre possa essere vissuto con ragionevole timore, proiettando in creature sconosciute quelle caratteristiche o attitudini che si sono dimostrate, almeno fino a questo momento, forse peculiarità dell’essere umano.

Dai primi libri di fantascienza fino ai film hollywoodiani dei primi anni ’90, il tema del contatto alieno è stato raccontato sempre (salvo rare eccezioni) come ostile. Più che un contatto tra civiltà diverse, si trattava soprattutto di una vera e propria invasione della Terra, perpetrata da alieni al fine di depredarla delle sue risorse o per sterminare il genere umano.

Poi le cose sono gradualmente cambiate. La scoperta nel 1996 dei primi esopianeti, ha rispolverato nella mente di gran parte della comunità scientifica ufficiale, da sempre scettica all’esistenza di civiltà aliene e allineata alla tradizionale visione antropocentrica, l’idea che quella della vita extraterrestre potesse essere una possibilità tutt’altro che da scartare. Così, da quel momento, anche la comunicazione pubblica di questa idea ha assunto una connotazione più positiva. Il dibattito sulla possibilità di un contatto extraterrestre si è ampliato ed ha trovato, sebbene ancora con una prevalenza nelle dichiarazioni ufficiali di scetticismo, ilarità, sempre maggiore diffusione anche al di fuori dell’ambito letterario e cinematografico.

I racconti sempre più numerosi di contatti alieni, narrati ora dai sedicenti protagonisti, non riguardavano più soltanto aspetti e circostanze vissute con paura e timore, ma mettevano spesso in risalto la positività dell’incontro. In questi racconti il tema centrale non era più il contatto in sé, l’aspetto tecnologico della circostanza o la descrizione fisica degli alieni, quanto piuttosto il “messaggio” positivo che l’evento lasciava nella vita dei protagonisti, messaggio non personale ma globale.

Se negli anni passati la maggioranza delle persone che sosteneva di aver vissuto un’esperienza di contatto extraterrestre (indipendentemente che questa fosse stata vissuta o no positivamente), aveva forti reticenze a raccontarla, spesso per la paura di non essere creduta e additrittura derisa, oggi la cosa è diametralmente cambiata. Ora sembra quasi che ciascuna di queste persone senta l’obbligo, ancor prima della necessità, di parlarne, raccontando le sensazioni positive provate e cercando di trasferire agli altri il “messaggio positivo” che ritiene di aver ricevuto, al fine di aiutare il genere umano a progredire, soprattutto da un punto di vista spirituale.

Non è questa la sede per scendere nei dettagli di un discorso complesso e complicato come quello del tema ufologico, sulla sua veridicità e sull’impatto che questa idea o fatto, ha (e ha avuto in passato) sulla storia, sull’evoluzione e sulla psiche del genere umano, per il cui approfondimento rimando a quanto già ampiamente trattato nei lavori già pubblicati.

L’evidente cambio di atteggiamento da parte delle istituzioni, che non può trovare giustificazione nelle sole ufficiali e ampliate conoscenze scientifiche e archeologiche, è stato pianificato decenni prima (come emergerebbe da alcuni documenti americani desecretati degli anni ’60)? Questo cambio di atteggiamento è la prova evidente che siamo nel bel mezzo di una campagna mediatica preparatoria per l’accettazione di questa ineluttabile realtà?

Il cambio di considerazione da negativa a positiva che quest’idea ha avuto soprattutto negli ultimi venticinque anni, sembra aver mutato la comune percezione del fenomeno, questo è almeno quanto risulta dai risultati di tre ricerche pubblicate sulla rivista Frontiers in Psychology, condotte negli Stati Uniti, dall’Arizona State University.

Le ricerche si sono basate sull’analisi di articoli usciti su quotidiani e riviste. Si tratta della prima volta che uno studio, sebbene su un campione molto limitato di popolazione, si occupa di rilevare la percezione di questo fenomeno.

Nel primo studio sono stati passati in rassegna gli articoli pubblicati dal 1996, anno della scoperta del meteorite marziano ALH84001 in cui si evidenziava la presenza di strutture fossile di probabile origine biologica, alle più recenti notizie sulla possibile megastruttura artificiale aliena attorno alla stella Tabby, o ancora al sistema Trappist-1 in cui è stata rilevata la presenza di almeno tre pianeti potenzialmente adatti a ospitare la vita. Analizzando il linguaggio dei giornali con l'aiuto di un software, sono emersi emozioni e atteggiamenti quasi sempre positivi. Questo studio ha quindi evidenziato il mutato atteggiamento dei mass media nell’approccio a quest’argomento.

Nel secondo studio gli stessi ricercatori hanno chiesto a 500 persone di scrivere le loro possibili reazioni all'annuncio della scoperta di vita extraterrestre in forma di microrganismi. Anche in questo caso le risposte sono state ottimiste.

Nel terzo studio è stato chiesto a più di 500 persone di scrivere le loro reazioni su due scoperte del passato descritte nei giornali: le possibili tracce di antichi microrganismi su un meteorite marziano e la creazione di vita umana sintetica in laboratorio. Anche in questo hanno prevalso le emozioni positive. "Tutto ciò – ha affermato il coordinatore dello studio Michael Varnum - indica che se dovessimo scoprire che non siamo soli, prenderemmo la notizia piuttosto bene".

Ora che anche alcuni settori del mondo scientifico sembrano pronti ad accettare questa idea, non ci resta che attendere l’eventuale annuncio ufficiale che potrà avvenire soltanto con l’avallo delle Autorità politiche. Nel frattempo, mentre la maggioranza delle persone attende che gli sia detto cosa pensare e cosa credere, tutti gli altri dalla mente più aperta e indipendente, possono documentarsi e farsi la propria opinione, vagliando seriamente questa possibilità.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Gli Ufo in epoca romana

Siamo spesso abituati ad ascoltare da chi non ritiene possibile il contatto extraterrestre e falso il fenomeno ufo in generale, che tutto questo è frutto di suggestioni moderne e nulla più.

Già in un articolo precedente ho illustrato come esistano casi documentati già centocinquanta anni fa, ancor prima del volo dei fratelli Wright.

In quest’articolo voglio ora proporre alcuni passi di testi di epoca romana in cui si parla di eventi che oggi noi definiremmo avvistamenti di Ufo. Questo dovrebbe essere sufficiente una volta per tutte, quantomeno a tacitare la superficiale, qualunquistica e forviante obiezione che viene diffusa dai saccenti conservatori delle idee tradizionali.

“[…] Lo storico romano di origine ebraica Giuseppe Flavio nel suo scritto “Guerra Giudaica”, opera pubblicata nel 75 d.C. in greco ellenistico, racconta la storia di Israele dalla conquista di Gerusalemme da parte di Antioco IV Epifane (164 a.C.) alla fine della prima guerra giudaica 74 d.C. L’opera è considerata una fonte storica attendibilissima dalla scienza accademica. In questo scritto Giuseppe Flavio racconta un evento che lui stesso definisce “incredibile”. Flavio scrive (Tratto dal libro VI – eventi precedenti la caduta di Gerusalemme): “Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall'altra la conferma delle sventure che seguirono.

Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città.

Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti, riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: Da questo luogo noi ce ne andiamo.”

Cosa ha descritto Flavio?

Sebbene come detto Giuseppe Flavio sia considerato uno storico attendibile, il passo sopra citato è molto noto e allo stesso tempo, molto controverso. Spesso viene liquidato dagli scettici dell’argomento ufologico, come un’allucinazione che lo storico, insieme ad altri testimoni, ebbe in quei giorni. Ma mi chiedo, è davvero così?

In epoca romana, lo storico del IV secolo d.C. Giulio Ossequente, nel libro il "Prodigiorum Liber" (la versione oggi conosciuta è stata stampata per la prima volta a Venezia da Aldo Manuzio nel 1508, un'edizione ricavata da un manoscritto rinvenuto e copiato in Francia e andato perduto), raccolse e riportò la descrizione di una serie di insoliti eventi avvenuti nei cieli di Roma e nei suoi domini, definiti appunto ”prodigia”, in epoca romana. I fatti narrati sono tutti tratti dalla storia narrata da Tito Livio. Ne riporto alcune che ritengo più significativi.

Nel 171 a.C. “Nel consolato di Lucio Postumio Albino e di Marco Popilio Lenate, in Lanuvio (località nei pressi di Roma) fu veduta in cielo, una grandissima armata navale

Nel 91 a.C. “Nel consolato di Gaio Valerio e di Marco Erennio, a Bolsena (località nei pressi dell’omonimo lago del Lazio) una luce diffusa fu vista all’alba splendere nel cielo; essendosi concentrata in un sol punto, la luce assunse un aspetto bruno come il ferro; il cielo fu visto aprirsi e nell’apertura di quello apparvero dei vortici di fiamma che si avviluppavano insieme”.

Nel 89 d.C. “Nel territorio di Spoleto un globo di fuoco di colore dorato cadde a terra ruotando su se stesso. Quindi sembrò aumentare di dimensioni, ed elevandosi da terra ascese verso il cielo, dove oscurò il disco del sole con il suo splendore. Si allontanò poi verso il quadrante orientale del firmamento".

Nel 98 d.C. "Quando C. Mario e L. Valerio erano consoli, a Tarquini, da luoghi diversi fu vista cadere improvvisamente dal cielo una cosa simile ad una torcia fiammeggiante. Al tramonto un oggetto volante circolare, simile per forma ad un ardente clypeus (scudo dei legionari romani) fu visto attraversare il cielo da ovest ad est".

Queste dettagliate descrizioni di oggetti metallici che giungono fino a terra per poi risalire verso il cielo, non sembrano per nulla riconducibili a fenomeni atmosferici e neanche compatibili con la caduta di fulmini meteore o cose simili. Dunque cosa erano? Tutte allucinazioni?

Nella primavera del 312 a.C., Costantino invase l’Italia e dopo aver sconfitto le truppe romane nella battaglia di Torino e quindi nella battaglia di Verona, si diresse verso Roma tramite la via Flaminia, per accamparsi sulla riva destra del fiume Tevere a poca distanza dal ponte Milvio. Secondo le cronache storiche ufficiali, Costantino era deciso a sconfiggere Massenzio, allora imperatore, e a prendere Roma. Tuttavia si racconta come una volta arrivato nei pressi della città, si fosse preoccupato nel costatare che Massenzio disponeva di un esercito numericamente più forte del suo. Massenzio aveva infatti, verosimilmente a disposizione, secondo gli storici più attendibili, oltre 100.000 soldati tra fanti e cavalieri, mentre Costantino soltanto 40.000. Nei giorni che precedettero la battaglia (28 ottobre 312 a.C.), si racconta (dallo scrittore cristiano Lattanzio, precettore dei figli di Costantino, nell’opera “De mortibus persecutorum”, scritta poco dopo i fatti) che la notte prima della battaglia, Costantino avrebbe ricevuto in sogno l'ordine di mettere sullo scudo dei propri soldati, un segnale celeste divino. L'episodio è raccontato anche nell’opera “Vita di Costantino”, scritta dal vescovo Eusebio di Cesarea, stretto collaboratore di Costantino dal 325.

Secondo questa versione, i fatti si svolsero in pieno giorno ed in presenza di numerosi testimoni. Poco dopo mezzogiorno, Costantino ed il suo esercito assistettero ad un evento celeste prodigioso: l'apparizione di un incrocio di luci sopra il sole accompagnate dalla scritta “In hoc signo vinces” (dal latino "con questo segno vincerai”, in realtà sembra che la scritta fosse in lingua greca). Costantino avrebbe dunque chiamato dei sacerdoti cristiani per essere istruito su una religione, il cui contenuto non gli era ancora noto e impose alle sue truppe di apporre sui vessilli e sugli scudi il simbolo cristiano del Chi-rho, detto anche monogramma di Cristo, formato dalle lettere XP sovrapposte.

Nonostante le forze numeriche in campo non giocassero dalla sua parte, Costantino vinse la Battaglia di Ponte Milvio, diventando imperatore di Roma ed istituendo il cristianesimo come religione di Stato.

Cosa vide veramente Costantino? Se l’evento non si fosse verificato, Costantino avrebbe vinto lo stesso la battaglia pur disponendo di un esercito notevolmente più esiguo rispetto a quello di Massenzio? In ogni caso, cosa sarebbe stato della religione cristiana? Questo episodio può essere considerato come la prova di un’ingerenza nella storia umana, da parte di entità extraterrestri, atto a indirizzarne il procedere in una determinata direzione, sovvertendo l’ordine apparente delle cose? Interessante suggestione. […]” (Brano tratto dal libro Il lato oscuro della Luna

Molte altre sono le evidenze sul fenomeno Ufo nel passato fino ai tempi d’oggi. Continuare ad ignorarle è una scelta personale, così come lo è quello di continuare a credere cecamente nelle affermazioni delle autorità scientifiche e non sul fenomeno.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Il ghiaccio blocca gli extraterrestri?

Gli astronomi della divisione di Scienze Planetarie dell’American Astronomy Society di Provo, nello Utah, hanno formulato una nuova ipotesi per spiegare la mancanza di segnali provenienti da altre civiltà tecnologicamente avanzate, che potrebbero essere presenti già ora anche nel nostro sistema solare.

L’ipotesi avanzata, applicabile anche a pianeti extrasolari, potrebbe spiegare anche il cosiddetto paradosso di Fermi, secondo il quale l’assenza di segnali sarebbe la prova che siamo soli nell’universo.

Il paradosso di Fermi (sintetizzato nella frase: se l’universo è pieno di civiltà extraterrestri, dove sono tutti quanti?) è spesso chiamato in causa da chi non crede nell’esistenza di altre civiltà extraterrestri avanzate, presenti ancora contemporaneamente alla nostra. E’ inutile rilevare come il paradosso di Fermi sia oggi soltanto un concetto anacronistico, se si tiene conto dei nostri attuali progressi tecnologici, della nostra aumentata conoscenza scientifica e della maggior consapevolezza del funzionamento e della vastità dell’universo. Oggi infatti, siamo un pochino più coscienti del fatto che la nostra conoscenza è limitata, così come lo è la nostra capacità tecnologica.

Formulare e sostenere verità assolutistiche, escludendo quindi ogni altra ipotesi scientificamente possibile, solo sulla base delle nostre limitate conoscenze e capacità tecnologiche, rappresenta soltanto un atto di arroganza, manifestazione della presunzione umana, oltre che una forzatura scientifica e un insulto all’intelligenza. Tutto questo rende il paradosso di Fermi un mero appiglio per i negazionisti dei fenomeni ufologici e per gli scienziati e i politici conservatori, a cui la scoperta o l’evidenza dell’esistenza di forme di vita extraterrestri, causerebbero soltanto problemi, sia di credibilità di fronte all’opinione pubblica (poiché hanno sempre negato perentoriamente l’esistenza degli alieni) e sia di prestigio e potere.

Secondo un articolo apparso sul sito web della rivista Science, lo scienziato planetario Alan Stern del Southwest Research Institute in Boulder, in Colorado, ha ipotizzato che la mancanza di segnali di civiltà extraterrestri sarebbe dovuta alla presenza del ghiaccio.

Negli ultimi anni gli astronomi hanno potuto rilevare come gli oceani siano abbastanza comuni sia nel nostro sistema solare sia, probabilmente, in altri sistemi stellari. Ad esempio ciò è vero per diverse lune di Giove come Europa, Callisto e Ganimede, di Saturno come Encelado e di Nettuno o anche per Plutone.

A conferma di ciò, proprio in questi giorni infatti, la Nasa  ha ridefinito le caratteristiche dei pianeti esterni al Sistema Solare in grado di ospitare la vita. Lo ha fatto con un modello nel quale sono indicati i parametri in base ai quali i mondi alieni potrebbero essere abitabili. Il risultato della ricerca, coordinata dall'Istituto Goddard della Nasa (GISS) e dall'Istituto di tecnologia di Tokyo, è pubblicato sull'Astrophysical Journal.

Il nuovo modello riguarda al momento solo i pianeti quasi completamente occupati da oceani. Un mondo alieno è infatti considerato potenzialmente abitabile se la sua temperatura consente all'acqua di essere presente in superficie allo stato liquido per un tempo sufficientemente lungo a consentire alla vita di prosperare.

Questi mondi hanno tutti ghiaccio d'acqua come elemento principale delle loro superfici. Su questi corpi celesti, il ghiaccio forma montagne torreggianti e canyon incrinati in superficie, ma è pensiero ormai diffuso tra gli astronomi e gli astrobiologi, che nelle profondità ci sia acqua liquida e salata.

Le aperture idrotermali su questi oceani ghiacciati, potrebbero immettere sostanze nutritive nel loro ambiente, simile agli ecosistemi che si trovano in fondo agli oceani della Terra. Questa sorta di vivai o serre cosmiche, schermando attraverso il ghiaccio i raggi cosmici, potrebbero essere addirittura più produttivi e fecondi, dal punto di vista biologico, degli ambienti simili presenti sul nostro pianeta.

Secondo Alan Stern, la maggior parte delle creature extraterrestri si potrebbe essere sviluppata nelle profondità degli oceani dei loro pianeti. Se gli organismi viventi nell’oceano di questi mondi gelidi si fossero evoluti in creature intelligenti, probabilmente non avrebbero conosciuto il cielo notturno, lo spazio cosmico e anche altre civiltà come la nostra ad esempio. Lo strato di ghiaccio avrebbe impedito loro di emettere segnali captabili da noi o di ricevere quelli inviati dalla nostra civiltà.

L’ipotesi formulata non si basa su nuove prove o scoperte, ma per la prima volta riuscirebbe a dare una spiegazione alla mancanza di segnali alieni legandola alla prevalenza di mondi oceanici e gelidi.

L'idea è intrigante, anche se non è necessario invocare il paradosso di Fermi” ha affermato lo psicologo Douglas Vakoch, presidente del METI (Messaging Extraterrestrial Intelligent) un’organizzazione non profit con base a San Francisco che si occupa della ricerca di messaggi extraterrestri.

 “Le indicazioni biochimiche della vita sono semplicemente difficili da individuare a distanza e probabilmente serviranno nuovi telescopi e tecniche per trovarle” ha replicato Alan Stern “ Se gli extraterrestri non ci trovano, in primo luogo potrebbe essere perché decidono che la comunicazione a lunga distanza non è valida, soprattutto se pensano che tutti gli altri siano intrappolati nelle loro proprie piccole bolle gelide”.

Stiamo parlando ovviamente d’ipotesi, che al pari di quelle che vogliono solo l'uomo rappresentare la vita intelligente, così popolari nella comunità scientifica più conservatrice, sono pur sempre delle possibilità da tenere presenti, ed è interessante poter sottolineare come il tema sul contatto extraterrestre è quotidianamente presente in ambito scientifico e non solo argomento per appassionati di fantascienza, come erroneamente si crede e si cerca di far passare.

Il futuro ci dirà presto chi ha torto o chi ragione. Avere a riguardo una posizione di equilibrio, aperta e scientificamente ragionavole appare, in attesa di riscontri, la strada più opportuna. Ciascuno può improntare la sua idea più o meno all’ottimismo o al pessimismo, è legittimo che ciascuno abbia il proprio pensiero. Tuttavia si spera che la propria idea a riguardo, sia sempre intellettualmente onesta e non sia forviata da ragioni di opportunità o interessi economici e personali, e/o legata all’appartenenza a determinati gruppi sociali o comunità di lavoro, in cui l’idea divergente è ridicolizzata.

La storia dimostra che gli insensati assolutismi, anche in ambito scientifico, alla fine devono fare i conti con la realtà e spesso chi li ha generati, cavalcati e sostenuti, ne esce nel migliore dei casi, fortemente ridimensionato.

L’argomento vita extraterrestre non dovrebbe essere un tema su cui dividersi, ma al contrario un qualcosa che unisce, dal momento che metterebbe la civiltà umana, tutta, a confronto con altre forme di vita.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Usa e Russia insieme per una stazione spaziale in orbita lunare

Mentre sulla Terra Stati Uniti e Russia (e ancor prima l’Unione Sovietica) continuano da decenni ad essere apertamente in contrasto, portando il mondo più volte sull’orlo dell’olocausto nucleare, al di fuori dell’atmosfera terrestre, sembra invece che tutte le divergenze, non solo ideologiche, tra questi due Paesi, vengano di colpo appianate.

Dopo l’iniziale rivalità configuratasi con la celebre “corsa allo spazio” avvenuta nel secondo dopoguerra, che aveva registrato vittorie alterne con l’Unione Sovietica prima nazione a mettere in orbita un satellite artificiale (lo Sputnik) e il primo uomo ad orbitare attorno alla Terra (il cosmonauta Yuri Gagarin), e gli Stati Uniti prima nazione a far sbarcare un uomo sulla superficie della Luna, le due nazioni smisero di rivaleggiare.

I programmi spaziali delle agenzie dei due Paesi proseguirono in modo indipendente e, benché gli obiettivi fossero spesso analoghi (esplorazione ed invio di sonde sulla superficie di Venere e Marte, costruzione di stazioni spaziali orbitali) il clima di aperta rivalità, cambiò drasticamente dopo l’allunaggio americano del 1969.

Oggi, nonostante il clima politico sia nuovamente incandescente e i rapporti tra Stati Uniti e Russia siano tornati nuovamente abbastanza tesi, incredibilmente si ripete ancora una volta ciò che è già avvenuto in passato, vale a dire l’abbastanza sorprendente decisione delle due agenzie spaziali, la Nasa e la Roscosmos, di collaborare per la realizzazione di una missione spaziale comune.

Nel corso dell’International Astronautical Congress, tenutosi in Australia alla fine del Settembre 2017, il capo di Roscosmos Igor Komarov, ha annunciato che “la Nasa e il Roscosmos hanno deciso di costruire insieme una nuova stazione spaziale, la Deep Space Gateway, questa volta posizionata nell'orbita lunare”.

I primi moduli potranno essere lanciati nel 2024-2026. L'accordo, secondo quanto riporta l'agenzia Interfax è preliminare e dovrà essere stilato a livello governativo. 

Igor Komarov ha aggiunto: “Inizieremo con la costruzione della stazione orbitante, poi, una volta che le tecnologie saranno testate, potranno essere utilizzate sulla superficie della Luna e, più tardi, su Marte”. Anche la Cina, l'India, il Brasile e il Sudafrica, tutti Paesi interessati allo sfruttamento delle risorse minerarie lunari, potrebbero prendere parte al progetto. Le parti hanno avuto una discussione preliminare sul loro contributo al progetto.

I precisi aspetti tecnologici e finanziari dei partecipanti a Deep Space Gateway verranno discussi nella fase successiva dei negoziati. “Abbiamo appena firmato una dichiarazione congiunta d'intenti per lavorare sulla stazione orbitante lunare: missioni su Luna e Marte saranno considerate in futuro. La costruzione da uno a tre moduli e lo sviluppo di un sistema di attracco unificato per tutti i tipi di navicelle spaziali possono essere il nostro contributo; inoltre - ha concluso Komarov - la Russia intende usare i nuovi razzi da carichi pesanti in progettazione per portare gli elementi della stazione nell'orbita lunare”.

Non è certamente la prima volta che i due Paesi collaborano. Lo stanno facendo anche negli ultimi anni. A seguito del pensionamento delle navette Shuttle, le navette russe Sojuz hanno spesso rappresentato l’unica possibilità di rifornimento della Stazione Spaziale Internazionale (ISS), che vede spesso astronauti dei due Paesi collaborare assieme.

Tuttavia la collaborazione alla realizzazione della ISS da parte della Russia fu inizialmente stato marginale, dal momento che per anni prima l’Unione Sovietica e poi la Russia, avevano costruito e mantenuto in vita una loro stazione spaziale, la Mir, abbandonata e poi distrutta come da programma, nel 2001.

Benché la Russia fosse già coinvolta nello sviluppo della ISS dunque, la sua piena partecipazione al progetto iniziò soltanto dopo questa fase.

Nel frattempo, a seguito della disgregazione dell’Unione Sovietica, negli anni ’90 del secolo scorso, le relazioni tra Russia e Stati Uniti migliorarono e portarono anche alla realizzazione del programma Shuttle-Mir, che consisteva in una serie di visite della navetta americana alla stazione orbitale russa.

Tutto questo avveniva in un clima di parziale distensione nei rapporti politici e diplomatici delle due superpotenze, dunque sotto un certo punto di vista ciò non sorprende.

Come detto però, i rapporti tra i due Paesi sono tornati tesi come ai tempi della guerra fredda, certamente come non accadeva da venticinque anni a questa parte, dal disfacimento dell’Unione Sovietica. ad oggi. L’annunciata collaborazione per la costruzione della nuova stazione spaziale, la Deep Space Gateway, questa volta posizionata nell'orbita lunare, desta  quindi sensazione così come lo fece l’inaspettata collaborazione negli avvenuta negli anni ’70.

“[…] E perché in piena guerra fredda, le due superpotenze mondiali in constante conflitto tra loro, decisero di “collaborare” per un breve periodo, in un comune programma spaziale?

Il 17 luglio 1975, infatti, una navicella del programma spaziale americano Apollo ed una capsula sovietica Sojuz si agganciarono nell'orbita intorno alla Terra, consentendo ai due equipaggi di potersi spostare da una navicella spaziale verso l'altra.

In un’epoca in cui lo spionaggio riguardante lo sviluppo della tecnologia, era una delle principali attività dei rispettivi apparati dei servizi segreti, perché consentire al “nemico” di poter accedere in “casa propria”, permettendo di spiare la propria tecnologia?

Sebbene tale collaborazione fu interpretata da molti come segno di reciproca volontà di pace, le tensioni tra i due Paesi continuarono per altri 15 anni e soltanto dopo vent'anni, dopo la fine della guerra fredda, venne iniziata una nuova collaborazione con l'avvio del programma Shuttle-Mir.

Quali erano dunque, i reali motivi di questa inaspettata ed imprevedibile collaborazione? Tutto ciò aveva a che fare con gli avvistamenti che gli astronauti dei due schieramenti, avevano avuto nei decenni precedenti? […]” (Brano tratto dal libro Il lato Oscuro della Luna)

Il motivo per il quale, usciti dall’atmosfera terrestre, tutte le problematiche, le divergenze politiche ed ideologiche sembrano ogni volta  improvvisamente scomparire, continuano a destare curiosità.

A tal proposito tornano alla mente le parole dell’ex presidente americano Ronald Regan.

“[…]Ronald Regan, affermò di aver avvistato un ufo, condividendo il suo pensiero addirittura durante una riunione dell’ONU. L’avvistamento risale al 1974, quando Regan era governatore della California. Raccontò infatti, che stava volando a bordo del suo aereo privato verso la California quando avvistò, assieme al suo pilota, un oggetto che seguiva il suo aereo in modo ben visibile. L’avvistamento durò per circa un paio di minuti, poi l’oggetto sfrecciò via ad una velocità incredibile.

Alcuni ritengono che questa esperienza abbia fortemente influenzato Regan, al punto che durante un suo discorso di fronte ai rappresentanti di tutti i paesi facenti parte all’Onu, disse: “… a causa delle nostre divisioni attuali, dimentichiamo quante cose in comune gli esseri umani abbiano tra loro. Forse abbiamo bisogno di una minaccia universale esterna che ci faccia riconoscere questo legame. A volte penso come sparirebbero velocemente tutti i nostri contrasti se dovessimo affrontare una minaccia aliena proveniente da un altro mondo, e mi chiedo: questa minaccia è già di fronte a noi? […]” (Brano tratto dal libro Il lato Oscuro della Luna)

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Anche altri corpi del nostro sistema solare possono ospitare la vita!

Una volta soltanto la Terra era considerata ospitale per la vita, perché solo sulla Terra si riteneva fosse presente l’acqua, elemento ritenuto indispensabile per la presenza di vita (anche se oggi sappiamo con certezza che non è necessariamente così). Negli ultimi anni la questione è radicalmente cambiata e la favola che ci raccontava come fossimo fortunati a vivere su un pianeta unico nell’universo, proprio perché l’unico (certamente nel nostro sistema solare) ad avere acqua, va ormai dimenticata.

Grazie ai dati provenienti dalle varie missioni spaziali oggi sappiamo che c’è acqua (liquida o sotto forma di ghiaccio) sulla Luna, su Marte, sui pianeti nani Cerere e Plutone, su sulla luna di Giove Europa e su quella di Saturno Encelado, solo per citare i corpi celesti del nostro sistema solare.

Oggi a questa ormai lunga lista, includiamo anche Mercurio.

Uno studio, condotto dalla Brown University e pubblicato su Geophysical Research Letters, suggerisce che questo elemento potrebbe trovarsi in determinate aree della superficie butterata di questo apparentemente caldo, brillante e inospitale pianeta.

Nel dettaglio, grandi depositi di ghiaccio superficiale potrebbero trovarsi all’interno di tre nuovi crateri recentemente scoperti e, in misura minore, sparsi intorno al polo nord di Mercurio, sia nei crateri sia nelle zone ombreggiate tra questi ultimi.

L’asse di Mercurio non è molto inclinato, per questo motivo i suoi poli sono poco illuminati e la mancanza di atmosfera mantiene le temperature di queste aree sufficientemente basse da far presupporre l’esistenza di ghiaccio. Queste ipotesi sono state suffragate dalle osservazioni della missione Messanger della Nasa entrata nell’orbita di Mercurio nel 2011. La sonda ha poi terminato il suo compito nel 2015. Gli strumenti a bordo della Messanger hanno così individuato tre nuovi crateri che si espandono per circa 3.400 chilometri quadrati.

Un altro aspetto importante dello studio riguarda i dati sulla riflessione del terreno che circonda i crateri. L’area non è così luminosa come l’interno dei crateri, ma è notevolmente più brillante di molte altre zone della superficie di Mercurio. L’esistenza di questi piccoli depositi di ghiaccio potrebbe aumentare di molto l’inventario del ghiaccio presente sul pianeta.

La ricerca non ha ancora chiarito come il ghiaccio si sia formato, tuttavia la presenza di ghiaccio su Mercurio ipotizzata negli anni ’90, ha trovato un riscontro oggettivo.

Mercurio si aggiunge quindi, alla lista dei luoghi nel nostro sistema solare che hanno acqua sulla sua superficie.

Ciò non significa necessariamente che tutti questi corpi celesti abbiano con certezza ospitato, o ospitino ancora, forme di vita, ma testimonia ancora una volta come le affermazioni scientifiche che ancora oggi sono sostenute e fatte, debbano sempre e necessariamente essere prese soltanto come una delle tante possibilità e non come certezze assolute che non possono essere discusse senza passare per pazzi o visionari. Ciò che sappiamo e di cui siamo capaci, è solo una piccola parte di ciò che esiste. Escludere altre possibilità a fronte di queste limitate conoscenze è assurdo.

Molte delle affermazioni riguardanti soprattutto l’impossibilità dell’incontro con forme di vita extraterrestre, quando fatte in buona fede, sono conseguenza soltanto d’ignoranza scientifica, intesa non in senso dispregiativo ma come idee frutto di mancanza di elementi tangibili e oggettivi oltre (in caso di malafede) che di estremizzazioni ed estensione in modo irragionevole, arrogante, presuntuoso, pretestuoso, fanatico, assolutista e intellettualmente violento della poca conoscenza che ancora abbiamo riguardo molti aspetti scientifici.

Tutto ciò purtroppo non riguarda soltanto la ricerca di vita su altri pianeti, ma anche la nascita e lo sviluppo della vita sul nostro pianeta.

Continuare a sostenere in modo dogmatico le teorie che vedono  l’uomo come unica forma di vita su questo pianeta che si è evoluto in modo così intelligente , che le moltissime civiltà umane del passato si siano evolute in modo indipendente ma casualmente tutte nella medesima direzione, sviluppando lo stesso tipo di miti e leggende, la stessa iconografia, lo stesso tipo di religioni, gli stessi elementi costruttivi e architettonici, ecc. equivale a voler continuare a ritenere valida la teoria, ormai chiaramente da considerarsi una vera e propria favola, dell’unicità della Terra, della vita su essa presente e dell’uomo, citata in precedenza.

Lasciamo questo tipo di pensieri oscurantisti soltanto a coloro che dal mantenimento dello status quo traggono profitto e vantaggio.

Per tutti gli altri è forse giunto il momento di abbandonare il pensiero unico, le visioni del mondo preconcette e stereotipate imposte dalle autorità e dai mass media, per imparare a vedere il mondo da prospettive differenti. Solo così potremo riuscire ad evolverci, a migliorare il nostro mondo e a costruire un futuro migliore per tutti.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Mondi alieni a caccia di vita… sulla Terra

Da sempre una domanda riecheggia nella mente umana: Siamo soli nell’Universo? Sebbene nel corso degli anni la risposta sia cambiata più volte, in un senso o nell'altro, abbiamo sempre affrontato la questione come se questo dubbio fosse un'esclusiva curiosità del genere umano.

In molti pensano che la ricerca di vita intelligente extraterrestre sia un qualcosa riservato agli appassionati di fantascienza, a quelli che si lasciano suggestionare da libri e film, se non da tutto il materiale che sull'argomento circola in rete. Secondo queste persone, in realtà non c'è nulla di serio nella ricerca di vita intelligente extraterrestre. Come amano raccontarsi i benpensanti, i presunti appartenenti alla media intellighenzia scientifica, assertori a tutti i costi delle teorie tradizionali, i conservatori della teoria evoluzionistica legata alla visione antropocentrica dell'universo (che spesso si trovano concordi su questi temi con i fedeli delle religioni che sostengono il creazionismo), l’argomento extraterrestre è una futile quanto inutile perdita di tempo. Inutile dire che questa ristretta e assai limitata visione delle cose è tanto anacronistica quanto frutto di una profonda ignoranza in ambito scientifico, poiché esistono molte ricerche scientifiche, anche finanziate con denaro pubblico, che persegue proprio l'obiettivo della ricerca di vita aliena intelligente.

Anche quelli che prendono in considerazione l'esistenza di vita intelligente extraterrestre però, spesso si pongono l'iniziale domanda (Siamo soli nell'universo?) e vedono la questione solo in modo limitato, in modo unilaterale.  Sarebbe interessante anche chiedersi se esiste qualcuno nell'universo che, non sapendo ancora se è solo o no, si pone la nostra stessa domanda dal suo punto di vista.

Personalmente, ogni volta che guardo le stelle nel cielo mi chiedo se attorno a quei piccoli soli che sto guardando, ci siano pianeti che ospitano vita intelligente e se, proprio in quel momento ci sia su uno di quei pianeti, magari un altro essere intelligente che si sta ponendo la stessa domanda guardando verso il nostro Sole, verso di noi.

Dovremmo quindi chiederci più frequentemente se a porsi la domenda "Siamo soli nell'universo?" fosse una civiltà aliena. In tal caso riuscirebbe a trovarci e riconoscere il pianeta Terra come abitabile?

Sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society nel mese di Agosto (2017) è stato pubblicato uno studio di Robert Wells e Katja Poppenhaeger, dottorandi alla Queen's University di Belfast, nel quale si è tentato di dare una risposta a questa domanda.

Dallo studio è risultato che esistono almeno nove esopianeti in grado di catturare il transito del nostro pianeta sul disco del Sole. Il metodo del transito è quello che ci ha permesso di scoprire gran parte degli oltre 3.500 esopianeti che fino ad ora conosciamo. Per comprendere come apparirebbe dall’esterno il sistema solare, i ricercatori hanno individuato le regioni del cielo da cui le orbite dei nostri pianeti oscurano periodicamente la luce del Sole, passandogli davanti. Come si può facilmente dedurre, i pianeti più grandi potrebbero ovviamente oscurare più luce con il loro passaggio davanti alla nostra stella. Tuttavia, il fattore più importante è invece la distanza del pianeta dalla stella madre, e poiché i pianeti di tipo terrestre sono più vicini al Sole rispetto ai giganti gassosi, i transiti dei primi saranno più facili da rivelare.

Nello studio è emerso che le eventuali civiltà che abitano pianeti alieni che guardassero verso la nostra stella da qualsiasi direzione del cielo, potrebbero rilevare un numero massimo di tre pianeti, ma che non tutte le combinazioni di tre pianeti sono possibili. Gli autori dello studio hanno affermato: "Stimiamo che un osservatore posizionato in maniera casuale abbia circa 1 possibilità su 40 di osservare almeno un pianeta del sistema solare. La probabilità di individuare almeno due pianeti sarebbe circa 10 volte più bassa, e per individuarne tre il numero sarebbe di nuovo dieci volte più piccolo".

Tra gli oltre 3500 pianeti extrasolari noti (3652 per la precisione - dato del 17 agosto 2017), il team di ricerca ne ha individuati solo 68 dai quali sarebbe possibile vedere uno o più pianeti del nostro sistema solare in transito. Per di più, soltanto nove di questi esopianeti sono in posizioni favorevoli all’osservazione dei transiti della Terra, ma nessuno di loro è considerato abitabile, cioè non si trovano nella cosiddetta fascia di abitabilità o non sono pianeti rocciosi e quindi in grado di sostenere la vita come la conosciamo.

Tuttavia i ricercatori prevedono che ci siano almeno una decina di esopianeti abitabili, attualmente non scoperti, che si trovano in posizioni favorevoli a scoprire la Terra.

Come esposto nell'articolo precedente, quasi quotidianamente vengono scoperti nuovi pianeti, grazie anche ai nuovi telescopi spaziali, come il Kepler della NASA. Le regioni su cui si sta concentrando questo telescopio, sono vicine al piano dell’orbita terrestre, e questo significa che le stelle osservate si trovano nelle zone di transito dei pianeti del sistema solare. Per il futuro, il team ha in programma di estendere la ricerca di pianeti proprio in queste zone di transito, con la speranza di trovarne alcuni potenzialmente abitabili.

Benché i comuni mezzi d'informazione e gli spesso approssimativi esponenti della comunità scientifica, continuino pubblicamente a derubricare l'argomento della ricerca di vita intelligente extraterrestre a semplice fantascienza, come dimostra questo studio, la questione è invece affrontata seriamente e tenuta in considerazione sia in abito scientifico e sia politico, anche con ricerche all'apparenza fantasiose.

Basti pensare anche, che nel mese di Aprile 2016, sempre sulla rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society, era apparso, con tanto di calcoli e simulazioni, un articolo di astronomi americani della Columbia University di New York, David Kipping e Alex Teachey. Partendo dal presupposto che così come noi, eventuali civiltà aliene potrebbero essere interessate a colonizzare nuovi pianeti e non conoscendo se tali civiltà possano o meno essere ostili, i due astronomi hanno proposto un vero e proprio mantello dell'invisibilità laser, cercando di camuffare la Terra per evitare che venga scoperta quando passa davanti al Sole riducendone momentaneamente la luminosità (lo stesso principio del "Transito" usato dal telescopio spaziale Kepler della Nasa per identificare altri pianeti abitabili). Ebbene, nell'articolo dell'aprile 2016, Kipping e Teachey sostengono che basterebbe accendere un mega laser per 10 ore all'anno per compensare questo calo di luminosità e passare inosservati durante il transito davanti al Sole. Un altro laser decisamente più economico, potrebbe invece mascherare la presenza dell'ossigeno in atmosfera, nascondendo agli alieni la presenza di vita sulla Terra.

Al di là dell'apparente bizzarra ipotesi, che ribadisco proviene da ambienti accademici tradizionali spesso finanziati anche con denaro pubblico, la possibilità dell'esistenza e di contatto con forme di vita intelligente extraterrestre, è ben più presente nella mente della comunità scientifica e delle autorità governative, di quanto ufficialmente venga fatto credere all'opinione pubblica.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

300 anni di scoperte di pianeti ed esopianeti in 30 secondi

Lo studente di Astronomia e Astrofisica dell'università di Warwick  Hung Osborn nel 2015 ha creato questa gif che raccoglie l'intera storia della scoperta dei pianeti dal 1750 fino al 2017 (la gif è stata aggiornata recentemente all'inizio del 2017).

Alla data del 17 agosto del 2017 i pianeti extrasolari conosciuti sono 3652, sul grafico ne risultano solo 2954. Ben 698 altri pianeti sono stati scoperti nei successivi 6 mesi, cioè dalla data di aggiornamento della gif (nel febbraio 2017) e l'Agosto 2017.

Grazie a questa immagine animata è possibile rendersi conto di come, con l'avanzare della tecnologia è stato possibile scoprire un sempre crescente numero di pianeti. La velocità con cui le scoperte si sono succedute, è addirittura esponenziale.

Quanti ne scopriremo nei prossimi anni?

Ricordiamo che uno dei motivi che ha spinto in passato la scienza a negare l'esistenza di altre forme di vita extraterrestre oltre che qualunque racconto riportasse di forme di contatto con esse, era essenzialmente il presupposto che non essendo possibile confermare l'esistenza di altri pianeti, non era possibile ipotizzare l'esistenza di altre forme di vita.

Tale affermazione è stata resa esplicitamente da alcuni astronomi appartenenti alla comunità scientifica ufficiale. Oggi la questione è sensibilmente cambiata poiché non è più possibile basare la negazione su questo presupposto. Oggi la scienza comincia a prendere ufficialmente  in considerazione la possibilità dell'esistenza di vita aliena, anche se si continua a negare ogni possibile forma di contatto avvenuta in passato.

C'è da rilevare come non tutti i pianeti indicati nella gif, siano pianeti potenzialmente abitabili, almeno per quanto ne sappiamo, tuttavia si tratta di scoperte fatte osservando parti molto piccole della volta celeste. Ciò lascia presupporre che i pianeti esistenti siano miliardi.

Come si legge il grafico rappresentato nell'immagine?

L'asse delle ascisse (quella orizzontale rappresentata dalla lettera x) identifica i periodi di rivoluzione dei pianeti, vale a dire il tempo impiegato da un pianeta per compiere un'orbita completa attorno al suo Sole.

L'asse delle ordinate (quella verticale rappresentata dalla lettera y) identifica invece le masse dei pianeti. Il raggio dei pianeti è rappresentato dalla dimensione dei pallini. 

I pianeti sono indicati con colori differenti, a seconda del metodo con il quale sono stati scoperti.

Il Blu indica i pianeti del nostro sistema solare, rimasti gli unici pianeti ufficialmente conosciuti oltre 2 secoli e mezzo, fino a quando cioè, il 5 ottobre del 1995, Michel Mayor e Didier Queloz dell'osservatorio di Ginevra, annunciarono di aver scoperto il primo pianeta extrasolare (51 Peg nel 1995).

Il colore azzurro indica invece gli esopianeti scoperti con il metodo della velocità radiale (cioè le variazioni nella velocità con cui la stella si avvicina o si allontana dal pianeta), primo tra i quali è stato il già citato 51 Peg nel 1995. Tali variazioni rivelano la presenza dei pianeti.

Con il colore arancione sono indicati gli esopianeti scoperti grazie al microlensing gravitazionale, vale a dire l'effetto che si genera quando i campi gravitazionali di due corpi celesti cooperano per focalizzare la luce di una stella, creando il cosiddetto effetto della lente gravitazionale, effetto che rivela la presenza dei pianeti.

Con il colore verde sono rappresentati gli esopianeti scoperti con il metodo della variazione degli intervalli di emissioni. Una stella Pulsar infatti, emette onde radio a intervalli estremamente regolari, simili ad una pulsazione (da qui appunto il nome). Analizzando le anomalie negli intervalli di queste emissioni, è possibile tracciare i cambiamenti ed evidenziare la presenza di uno o più pianeti.

Infine in rosso sono rappresentati i pianeti scoperti con il metodo del transito. Se un pianeta si frappone (transita, appunto) tra noi e la sua stella, causa una minuscola variazione della luminosità. Osservando la regolarità della variazione e valutandone il calo di luminosità è possibile determinare la presenza e le dimensioni di un pianeta.

Per quanto riguarda la disposizione dei punti nel grafico, tanto più sono distanti dal margine destro del grafico, quindi distanti dall'asse verticale delle ordinate, tanto più sono distanti dal loro Sole.

Tale distanza non ha alcun tipo di significato circa la potenziale abitabilità del pianeta. Infatti, una stella nana rossa è molto più fredda, di una stella simile al nostro Sole (nana Gialla) dunque i pianeti che orbitano attorno a nane rosse, anche se molto vicini a essa, potrebbero essere abitabili. Al contrario pianeti distanti dalla propria stella come Giove o Nettuno o Saturno, potrebbero essere abitabili se la loro stella è una gigante gialla, molto più calda del nostro Sole.

Infine i pallini più vicini al margine superiore del grafico, rappresentano esopianeti che hanno una massa maggiore. Gli esopianeti più vicini al margine inferiore presentano una massa comparabile a quella della Luna, mentre quelli sul margine superiore hanno 10.000 volte la massa terrestre (come 30 volte Giove).

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

I Babilonesi conoscevano la trigonometria millenni prima dei Greci

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista ARCHEO MISTERI MAGAZINE nel numero di Maggio 2021)

La trigonometria (dal greco trígonon (τρίγωνον, triangolo) e métron (μέτρον, misura): risoluzione del triangolo) è quella parte delle scienze matematiche che studia i triangoli a partire dagli angoli. La funzione principale della trigonometria è quella di riuscire a calcolare le misure ignote che caratterizzano gli elementi di un triangolo (lati, angoli, esterni e interni, mediane, ecc.) partendo d almeno tre misure già note (di cui almeno una lunghezza), grazie alle applicazioni di speciali funzioni dette trigonometriche (come ad esempio il seno e il coseno).

Questa disciplina matematica è solitamente insegnata soltanto a partire dalle scuole superiori, poiché si tratta già di funzioni matematiche non elementari, che presuppongono una conoscenza di base già solita oltre che la conoscenza de Pi greco (∏).

Fino ad oggi, le origini di questa disciplina matematica sono state fatte risalire al II secolo a.C. Si è sempre ritenuto che i primi fondamenti della trigonometria fossero contenuti nelle opere di Ipparco, Menelao e Tolomeo.
Ipparco visse a Rodi e ad Alessandria e morì intorno al 125 a. C., gettò le basi per il calcolo trigonometrico partendo dalla suddivisione della circonferenza in 360° (com'era stato fatto per la prima volta da Ipsicle di Alessandria nel 150 a. C. circa) e un suo diametro in 120 parti, ciascuna delle parti di entrambi, fu poi divisa in 60 parti, e queste ultime ancora in 60 e così via per poi arrivare all'introduzione della funzione che nella moderna trigonometria è chiamata seno.

La trigonometria greca raggiunge un alto livello di sviluppo con Menelao (98 a. C.), il quale introduce la trigonometria sferica mentre, lo sviluppo della trigonometria sferica e le sue applicazioni all'astronomia si sono avute in seguito per merito dell'egiziano Claudio Tolomeo.

Un articolo pubblicato sul portale Science (agosto 2017), che riprende uno studio pubblicato pochi giorni prima su Historia Mathematica per merito dei matematici Daniel Mansfield e Norman Wildberger dell'Università del Nuovo Galles del Sud (UNSW) a Sydney, ha retrodatato l'origine di questa disciplina matematica, non di qualche centinaio di anni, ma addirittura di quasi duemila anni, arrivando ad affermare che la conoscenza trigonometrica dei Babilonesi era addirittura migliore, dal punto di vista dell'utilità applicativa, di quella moderna!

I due hanno trovato prova di tale conoscenza avanzata su una tavoletta d'argilla babilonese conosciuta con il nome di Plimpron 322 (P322) datata tra il 1822 e il 1762 a. C.

Costituita da quattro colonne e da 15 righe di numeri scritti in carattere cuneiforme, la famosa tavoletta P322 è stata scoperta nei primi anni del 1900 in quello che oggi è l'Iraq sud dell'archeologo Edgar Banks, archeologo che ispirò poi la creazione del personaggio cinematografico di Indiana Jones.

Ora conservata presso la Columbia University, la tavoletta ha attratto l'attenzione degli studiosi soltanto negli anni '40 del novecento, quando gli storici si sono resi conto che le iscrizioni cuneiformi contenevano una serie di numeri somiglianti a quelli del celebre teorema Pitagora (che spiega la relazione tra i lati di un triangolo rettangolo) ma non era questo il punto.

Quello che modernamente conosciamo come teorema di Pitagora, infatti, è solitamente attribuito al filosofo e matematico Pitagora. Si tratta tuttavia di un apocrifo. In realtà il suo enunciato (ma non la sua dimostrazione) era già noto ai babilonesi, ed era conosciuto anche in Cina e sicuramente in India, come dimostrano molte scritture fra cui l’Yuktibhāṣā e il Baudhāyana Sulbasūtra.

Il motivo per cui gli antichi scribi generavano e ordinavano innanzitutto questi numeri è stato discusso per decenni.

I due matematici dell'Università del Nuovo Galles del Sud (UNSW) a Sydney, hanno studiato la tavoletta per due anni e arrivando alla conclusione che i babilonesi usassero una forma di trigonometria basata sui rapporti dei lati di un triangolo, piuttosto che sugli angoli, seno e coseno a noi più familiari. Sulle iscrizioni cuneiformi presenti sulla P322 i riferimenti a seni e coseni, la misura degli angoli utilizzati dagli astronomi greci e dagli attuali studenti delle scuole superiori, delle università, ecc., erano completamente assenti. Invece, ogni voce presente su P322 comprende informazioni su due lati di un triangolo: il rapporto tra il lato corto e il lato lungo e il rapporto tra il lato corto e la diagonale o l'ipotenusa.

Uno dei due autori dello studio, Daniel Mansfield, ha dichiarato: "Questo è un modo completamente diverso di guardare la trigonometria. Preferiamo seno e coseno ad esempio...  dobbiamo veramente uscire dalla nostra cultura per vederli dalla loro prospettiva (quella dei babilonesi ndr) per essere in grado di capirlo. Probabilmente è stata scoperta solo una piccola parte dei tesori delle tavole babilonesi – conclude il ricercatore – e il mondo matematico ha appena iniziato a capire che questa antica e sofisticata matematica ha molto da insegnarci".

In merito a questa scoperta, lo Storico dell'antichità alla Humboldt University di Berlino Mathieu Ossendrijver, ha osservato: "Se la nuova interpretazione è corretta, la P322 non solo contiene la prima prova della trigonometria, ma rappresenta anche una forma più esatta della disciplina matematica, piuttosto che le approssimazioni che i valori numerici stimati per il seno e coseno forniscono. Ciò che manca ancora - ha aggiunto Ossendrijver - è la prova che i babilonesi abbiano effettivamente utilizzato il contenuto di queste tavolette, o altri simili, per risolvere i problemi nel modo proposto nel nuovo studio".

C'è da rilevare tuttavia, che la nuova interpretazione della tavola P322 non ha riscosso unanimità di giudizio, come spesso accade nei casi in cui un reperto rimette in discussione la storia ufficiale.

Già, perché se questo nuovo studio fosse esatto, aggiungerebbe un altro importante tassello a dimostrazione che le nostre informazioni riguardo le conoscenze che le prime civiltà della storia umana (quella babilonese è considerata la civiltà immediatamente successiva alla prima, quella sumera) avevano, sono errate o fortemente limitate. Tale limitazione influisce sulla corretta percezione del grado di evoluzione di queste civiltà, considerate a torto, delle civiltà molto più arretrate rispetto a quelle successive, come quell’egzia, greca o romana. Queste "prime" civiltà, avevano un grado di conoscenze scientifiche applicate molto elevato e assolutamente incompatibile e inspiegabile con il grado di evoluzione e civilizzazione che di esse si può leggere negli attuali libri di storia.

Incongruenze a cui la storia ufficiale quindi dovrebbe trovare logiche risposte, attività impossibile da fare senza rimettere in discussione tutto, prendendo magari anche solo in considerazione l'ipotesi che i racconti di visite di Dei scesi dal cielo, che hanno donato alle prime civiltà umane, conoscenze astronomiche, matematiche oltre che insegnare loro la scrittura (racconti di questo tipo sono presenti nei miti e nelle leggende nelle culture di ogni epoca, in ogni parte del globo), possano corrispondere a racconti storici reali che, sebbene mediati con le parole conosciute del tempo, corrispondono a fatti realmente accaduti.

E' utile citare in questo frangente che nel Gennaio 2016, sempre su Science è stato pubblicato la coperta definita "rivoluzionaria" per la storia dell'astronomia. Nel frangente lo studio riguardava ancora una volta delle tavolette d'argilla babilonesi decifrate dal già citato Mathieu Ossendrijver, dell'università Humboldt a Berlino. In queste tavole è calcolata la posizione di Giove, solo sulla base della geometria. La scoperta ha destato sensazione perché finora, si era convinti che calcoli del genere fossero comparsi nella storia della scienza solo 1.400 anni più tardi.

Queste tavolette babilonesi utilizzano la geometria in senso astratto per definire il tempo e la velocità, a differenza degli antichi Greci che usavano le figure geometriche per descrivere la posizione nello spazio fisico. L'autore dello studio Ossendrijver intervistato ha dichiarato: "Le tavolette? Riscrivono i libri di storia dell'astronomia e rivelano che gli studiosi europei del '400 di Oxford e Parigi sono stati preceduti dai Babilonesi nell'uso della geometria per calcolare la posizione dei pianeti".

Tornando alle critiche ricevute sull'interpretazione della tavoletta P322, quella più feroce si è registrata da parte dello storico in pensione Jöran Friberg, dalla Chalmers University of Technology in Svezia, che si è preso addirittura la briga di scrivere un'email a Science, sostenendo che " i babilonesi non sapevano niente riguardo al rapporto tra i lati di un triangolo. La tavoletta P322 è soltanto una tabella dei parametri necessari per la composizione dei testi scolastici".

Ma Mansfield e Wildberger sostengono che i babilonesi, geometri esperti, avrebbero potuto avere utilizzato le loro tavole per costruire palazzi, templi e canali.

La storica di matematica Christine Proust del Centro Nazionale Francese per la Ricerca Scientifica a Parigi, esperta della materia, ha definito l'ipotesi degli dei due matematici australiani "Un'ipotesi molto seducente". Tuttavia rileva che "Nessun testo babilonese suggerisce che la tavoletta era utilizzata per risolvere o comprendere i triangoli. L'ipotesi è matematicamente valida e solita, ma per il momento è altamente speculativa".  Mathieu Ossendrijver si è dimostrato comunque più aperto affermando che una ricerca approfondita di altre tavolette matematiche babilonesi può ancora dimostrare l'ipotesi dei due matematici di Sydney.

Mi sembrava corretto riportare anche i pareri discordanti dalla tesi principale, giacché sebbene ciascuno abbia la propria idea su quella che può essere la storia passata, nessuno dovrebbe far il tifo per le proprie idee, ma soltanto cercare la verità. Un atteggiamento che si dovrebbe dare per scontato, soprattutto da parte della scienza, ma purtroppo la storia ci insegna che non è sempre così.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Le sonde Voyager e il loro carico d'oro avvolto nel mistero

Ricorre in questi giorni il 40° anniversario delle missioni Voyager. Le due sonde, ancora oggi attive e che rappresentano le missioni spaziali più anziane e più longeve della storia umana, hanno ormai superato i confini del nostro sistema solare. Lanciate rispettivamente il 20 agosto del 1977 (la Voyager 2) e il 5 settembre del 1977 (la Voyager 1) sono infatti, gli oggetti artificiali umani, più lontani dalla Terra. 

La Voyager 1 aveva come missione primaria quella di fotografare Giove, Saturno e Titano (una delle lune di Saturno), per poi dirigersi verso il confine del sistema solare, superato nell'Agosto del 2012, quando è ufficialmente entrata nello spazio interstellare (cioè lo spazio che si trova tra il nostro sistema solare e gli altri a noi vicini).  Con l'ingresso nello spazio interstellare, la Voyager 1 ha iniziato la sua missione secondaria che ha come obiettivi lo studio delle particelle magnetiche provenienti dall'esterno del sistema solare, alla ricerca del punto esatto dove inizia l'Eliopausa, cioè il confine presso il quale il vento solare emesso dal nostro Sole è fermato appunto, dalle particelle interstellari. In questo momento (dati del febbraio 2017) si trova a circa 20,460 miliardi di Km dalla Terra.

La Voyager 2 (partita circa 15 giorni prima della Voyager 1 per una questione di traiettorie orbitali) aveva come missione primaria lo studio di ben 4 pianeti del nostro sistema solare (Giove, Saturno, Urano, Nettuno). Passando accanto ai primi due, la Voyager 2 integrò le immagini e gli studi fatti dalla Voyager 1. I passaggi vicino a Urano e Nettuno furono invece i primi (e a tutt'oggi gli unici) incontri ravvicinati con questi due pianeti. La scoperta più recente (del 2016) compiuta dalla Voyager 2, riguarda la scoperta di altre due lune di Urano, oltre alle 27 già note, basata sui dati catturati nel 1986 dalla stessa Voyager 2. In questo momento si trova a circa 16,852 milioni di km dalla Terra.

In molti già sanno che entrambe le sonde Voyager, oltre al loro carico di strumentazione, trasportano un altro importante manufatto umano (il Voyager Golden Record) su cui tanto si è scritto, ma che ancora oggi è circondato da un alone di mistero legato ad alcune particolari scelte fatte nella sua realizzazione, non da tutti rilevate e per questo ancora più interessanti.

Per parlarne più nel dettaglio e cercare di capire a cosa mi riferisco, riporto qui di seguito dei brani tratti dal mio libro pubblicato ormai 2 anni fa (2015), nel quale ho trattato anche quest’argomento, all'interno di un quadro di riferimento molto più ampio.

" [...] Nel 1977 gli Stati Uniti, nell’ambito del programma di esplorazione spaziale chiamato Voyager, hanno lanciato nello spazio due sonde spaziali, chiamate Voyager 1 e Voyager 2, con il compito di esplorare il sistema solare esterno. Da allora, le due sonde munite di numerose apparecchiature all’avanguardia, hanno continuato ad inviare sulla Terra, centinaia d’immagini, dati ed informazioni riguardanti pianeti lontani del nostro sistema solare, come Urano, Nettuno e Plutone, consentendo di aumentare la conoscenza scientifica circa la composizione di tutti questi corpi celesti.

Grazie alle loro batterie ad isotopi radioattivi, si stima che saranno in grado di funzionare fino al 2025, mentre continueranno a viaggiare verso i confini del nostro sistema solare, là dove nessuna sonda o manufatto di origine terrestre, è mai giunta prima.

Su entrambe le sonde si trova una copia del cosiddetto “Voyager Golden Record”, un disco registrato che contiene immagini e suoni della Terra, insieme ad una selezione musicale. È concepito per qualunque forma di vita extraterrestre o per la specie umana del futuro che lo possa trovare, anche se la possibilità, secondo le ammissioni degli stessi curatori del progetto, sono assai poche. La sonda Voyager, infatti, impiegherà 40.000 anni per arrivare nelle vicinanze di un'altra stella e quindi l’invio nello spazio di questo manufatto, sarebbe da considerare più che altro come qualcosa di simbolico, e non un tentativo reale di comunicare con forme di vita extraterrestri. Sulla custodia del disco, anch'essa metallica, sono incise le istruzioni per accedere alle registrazioni in caso di ritrovamento.

Tuttavia, migliaia di dollari sono stati spesi per elaborare e realizzare questo disco. Pertanto considerarlo soltanto come una cosa puramente simbolica sarebbe riduttivo. Significherebbe aver deliberatamente voluto gettare via e quindi sprecare, notevoli risorse finanziarie che sarebbero potuto essere destinate allo sviluppo di altri progetti.

Al di là delle dichiarazioni ufficiali quindi, è più logico pensare che, se forse poco probabile, il tentativo di comunicare con altri esseri, sia tutt’altro che simbolico.

Il contenuto di questo messaggio è particolarmente interessante. Il contenuto del disco venne commissionato dalla NASA ad una commissione guidata dal famoso astrofisico statunitense Carl Sagan. Il messaggio elaborato conteneva una varietà di 115 immagini e un gran numero di suoni naturali, come quelli delle onde, del vento, dei tuoni oltre ai suoni prodotti da animali, come il canto degli uccelli e quello delle balene. Insieme a questi suoni della Terra, venne inserita una selezione musicale proveniente da diverse culture e diverse epoche, oltre ai saluti di abitanti della Terra in 55 lingue diverse.

Sulla Terra si stima che si parlino oltre 6.000 lingue diverse. È quindi comprensibile che, quando si è deciso di inserire un saluto in diverse lingue, sia stata fatta una selezione. Ma con quali criteri?

Le lingue selezionate, e quindi registrate sul Voyager Golden Record sono (in ordine alfabetico): Accadico, Amoy (dialetto Min), Arabo, Aramaico, Armeno, Bengalese, Birmano, Cantonese, Ceco, Cinese Mandarino, Coreano, Ebraico, Francese, Olandese, Inglese, Tedesco, Gallese, Greco antico, Giapponese, Gujarati, Hindi, Kannada, Ila (Zambia), Indonesiano, Italiano, Ittita, Latino, Luganda, Marathi, Ungherese, Nepalese, Nguni, Nyanja, Oriya, Persiano, Polacco, Portoghese, Punjabi, Quechua, Rajasthani, Rumeno, Russo, Serbo, Singalese, Sotho, Spagnolo, Sumero, Svedese, Telegu, Thai, Turco, Ucraino, Urdu, Vietnamita, e Wu.

Da questo elenco traspare molto chiaramente, come si sia deciso di inserire non le lingue più parlate al mondo (sono presenti soltanto 34 lingue tra le prime 55 più parlate al mondo e solo 43 tra le prime 100), ma quelle forse più rappresentative delle diverse aree geografiche.

Un altro elemento assai curioso è quello riguardante la presenza di ben 5 lingue morte (Accadico, Sumero, Ittita, Greco antico e Latino) sulle 55 lingue scelte. Perché inserire queste lingue, alcune delle quali (come l’Accadico, il Sumero e l’Ittita) essendo molto antiche, non si conosce neanche con esattezza il suono? Perché il Sumero, ad esempio e non la lingua degli antichi egizi, che hanno forse regnato per più tempo ed è forse considerata più importante, almeno nell’immaginario collettivo?

La questione si fa ancora più curiosa ed interessante se si verifica l’ordine con cui i saluti nelle diverse lingue, sono stati registrati.

Come si sa in campo della comunicazione, le persone (in questo caso le lingue) che sono considerate più importanti, effettuano il loro intervento, in un meeting, una convention o una riunione di partito ad esempio, per prime o per ultime, con una netta prevalenza, in relazione all’importanza, all’ultimo intervento.

Nel Voyager Golden Record, l’ultimo saluto inciso è ovviamente, quello in lingua inglese, poiché dal punto di vista politico, la lingua inglese oggi, e ancor di più nel 1977, è la lingua più importante al mondo.

La sorpresa però, nasce dalla presenza della lingua Sumera come prima lingua incisa nel disco. Perché è stata scelta proprio questa lingua, tra l’altro morta da oltre 4.000 anni e di cui, come detto, non si è certi neanche del corretto suono? La scelta è stata fatta giacché si tratta della prima lingua scritta conosciuta sulla Terra, o questa scelta nasconde invece qualche altra cosa? Tutto quanto scritto in precedenza in merito al popolo Sumero, ai suoi miti, e alle peculiarità della sua lingua (trovata anche in luoghi lontani dalla Mesopotamia), hanno qualcosa a che vedere con la scelta di porre il saluto in lingua sumera, al primo posto nel Voyager Golden Record? [...]" (brano dal libro Il lato oscuro della Luna)

Quali le possibili risposte a questi interrogativi? Nel libro in precedenza avevo scritto anche:

"[...] Abbiamo visto come in tutte le culture del passato, fin da quelle più antiche, siano presenti in quelli che oggi sono considerati miti o leggende, storie di Déi o esseri giunti dal cielo che insegnano all’uomo la matematica, la geometria, l’astronomia e spesso anche, e direi ovviamente, la scrittura. Del resto com’è possibile insegnare una qualunque disciplina contenente aspetti concettuali, i cui significati devono essere rappresentati con simboli, se prima non s’insegna il significato di quei simboli?

Partendo dal presupposto che questi racconti non siano soltanto dei miti o delle leggende, è possibile supporre che nei simboli che rappresentano le scritture di antiche civiltà, come quella sumera appunto o come quelle che utilizzavano il sanscrito, siano presenti nell’intero alfabeto o almeno in parte di esso, dei simboli appartenenti ad alfabeti o scritture di origine extraterrestre. Se oggi noi dovessimo insegnare a leggere ed a scrivere ad una popolazione, o anche solo ad una persona che non lo sa fare, creeremmo un nuovo alfabeto o utilizzeremmo quello che già conosciamo?

Se veramente le storie che fino ad ora abbiamo analizzato, e su cui si fonda la teoria degli antichi astronauti, fossero vere, è probabile che nelle forme più antiche di scrittura come quelle sanscrite e quella cuneiforme sumera, siano contenuti simboli “extraterrestri”. La lingua sumera, potrebbe quindi rappresentare la lingua utilizzata da questi antichi colonizzatori. Se così fosse, potrebbe essere questa la prova della veridicità dei miti e dei antichi racconti, e quindi delle nostre origini oltre che della vera storia dell’umanità?

Questa ipotesi è solo una congettura, frutto della suggestione della teoria degli antichi alieni? Oppure, nonostante quanto possano pensare la maggior parte degli scienziati tradizionalisti, è un’ipotesi molto più verosimile di quanto si possa comunemente immaginare?

La lingua sumera è forse l’unica lingua di cui non è stata ancora dimostrata la parentela con alcun’altra lingua, oltre al fatto che secondo la storia ufficiale, anche il luogo di origine è incerto. Se i Sumeri sono immigrati nel territorio alluvionale della Mesopotamia, come afferma la scienza ufficiale, la lingua era probabilmente sorta già da prima da un’altra parte? Forse su un altro pianeta? [...]" (brano dal libro Il lato oscuro della Luna)

A ciascuno spetta il compito di trovare la propria risposta, acquisendo maggiori informazioni su tutta la vicenda umana, magari partendo dallo scoprire cos'altro c'è sul lato oscuro della Luna.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Esopianeti ed Esoscienza

Negli ultimi 5 anni si sono scoperti  una quantità incredibile di esopianeti. Eppure fino a non più di 15-20 anni or sono, parlare apertamente di esopianeti era, anche nella comunità scientifica, quasi un tabù. Sebbene fosse logico immaginare, considerato l'enorme numero di stelle presenti e visibili anche solo ad occhio nudo, che ci fossero anche altri pianeti, spesso gli astronomi evitavano il discorso, semplicemente perché non potevano dimostrare l'esistenza.  L'argomento finiva per essere semplicemente sminuito o addirittura ridicolizzato o considerato null'altro che semplice fantasia. Come frequentemente accade e come la storia dovrebbe aver insegnato a tutti (anche se invece non è così), le cose che solo pochi anni fa sembravano solamente fantascienza, oggi sono addirittura considerate un'ovvietà.

Con i progressi tecnologici intervenuti negli ultimi anni e con la messa in orbita di opportuni telescopi spaziali, oggi siamo in grado di cercare, scovare e vedere migliaia di esopianeti.

Altri cinque possibili esopianeti 'fratelli' della Terra, si troverebbero dietro l'angolo, in orbita intorno a stelle vicine a noi: il primo pianeta, descritto sul numero di Agosto 2017 di sull'Astrophysical Journal, potrebbe trovarsi a 16 anni luce, intorno alla stella Gliese 832; altri quattro esopianeti, descritti su Astronomical Journal, sono stati individuati a 12 anni luce da noi intorno alla stella Tau Ceti. Due di questi esoèianeti orbiterebbero nella cosiddetta zona abitabile, ossia a una distanza tale dalla loro stella da poter avere acqua liquida in superficie.

Il condizionale è d'obbligo giacché questi nuovi 5 esopianeti non sono stati scoperti con l'ormai consueto metodo del transito (quello che rivela la presenza del pianeta quando, transitando davanti al suo sole, ne determina una diminuzione della luminosità) ma da calcoli gravitazionali effettuati riguardo all’osservazione delle due stelle in questione. Da tali calcoli si è visto che l’oscillazione di queste due stelle è compatibile con la presenza di pianeti posti ad una certa distanza e di certe dimensioni.

Dal risultato di tali calcoli quindi gli astronomi hanno dedotto (l'uso di questa parola non è casuale da momento che è il termine utilizzato nella presentazione di queste notizie nelle citate riviste, oltreché in tutti i mass media che ne hanno dato risalto) la presenza di questi esopianeti.

Mentre gli scienziati ufficiali, basano le loro affermazioni sulle deduzioni, noi umili ricercatori indipendenti, rei di utilizzare spesso il nostro cervello, sulla base di dati concreti ed oggettivi, applicando il metodo scientifico, possiamo invece affermare con certezza alcune cose riguardo il modus operandi della comunità scientifica e dell'informazione.

Ironia a parte (non voglio fare di tutta l'erba un fascio), mi piace evidenziare come, ancora una volta, per determinate notizie o "scoperte" che provengono dagli ambienti accademici tradizionali e che non contrastano in alcun modo con le teorie scientifiche (e dogmatiche) prevalenti, non si utilizza alcuna cautela nel diffondere queste informazioni. Il tutto è dato, sebbene come in questo caso non ci sia una prova tangibile ma solamente dei calcoli, quasi per assodato.

Non sto mettendo in discussione la bontà dei calcoli o del lavoro effettuato dagli astronomi autori di questo studio, né tantomeno voglio obbiettare circa la probabile presenza o esistenza di questi esopianeti. Il mio vuole essere soltanto una sottolineatura di come la scienza, poiché gestita dagli uomini, possa non essere così obiettiva come spesso si sente affermare dagli adepti delle teorie ufficiali a tutti i costi!

Queste persone per difendere la dottrina ufficiale o annichilire le tesi che posso metterla in discussione, spesso chiamano in causa il cosiddetto metodo scientifico, sovente non sapendo neanche con precisione di cosa s’intenda per metodo scientifico e, ancor più frequentemente, senza informarsi se, negli studi considerati "alternativi" tale metodo non sia stato applicato con rigore.

Infatti, al contrario di quanto avviene con le notizie ufficiali, le informazioni non provenienti da ambienti esterni alla comunità scientifica tradizionale e/o che mettono in discussione le teorie prevalenti, si pretende sempre una prova inequivocabile, senza riserva alcuna e senza la possibilità di considerare il nuovo punto di vista semplicemente come una possibilità da prendere in considerazione o un qualcosa di molto più probabile rispetto alla versione ufficiale. Nella rigidità e nella chiusura mentale di coloro che difendono ad oltranza la scienza precostituita, si finisce per considerare, senza distinzione alcuna, tutte queste informazioni alternative o controcorrente, spazzatura, fake news (tanto per utilizzare un termine molto in voga al momento, a cui spesso queste persone sono affezionate) o pseudoscienza.

Sia ben chiaro, sono il primo ad affermare che gran parte di ciò che circola in rete è spazzatura, anche in ambito scientifico, tuttavia, come dicevo poche righe fa, fare di tutta l'erba un fascio è sbagliato, così com'è sbagliato fare una selezione delle informazioni esclusivamente sulla base dell''attendibilità (o presunta tale) di una qualsiasi fonte (non fosse altro perché nessuno è infallibile e nessuno può dirsi detentore della verità assoluta).

Come diceva il filosofo francese Gaston Bachelard "C'è solo un modo di far progredire la scienza, dar torto alla scienza già costituita"

L'impressione è quella che si voglia per forza tentare di imporre un pensiero unico, scoraggiando il libero pensiero alimentato dalla moltitudine d’incongruenze che fanno sorgere, nella mente di coloro che non hanno ancora abdicato alla loro intelligenza rifiutandosi di smettere di pensare in modo autonomo, una moltitudine di ragionevoli dubbi, sovente non dettati dalla scarsa conoscenza della materia, come spesso si vorrebbe far credere, ma al contrario dall'analisi e dal possesso di un maggior numero d’informazioni.

Se quindi una teoria controcorrente (ovviamente ben argomentata e scientificamente documentabile) è definibile come "pseudoscienza" se non addirittura fantascienza, come definire le affermazioni scientifiche che si fondano su deduzioni e non su dimostrazioni oggettive, come nel caso di questi 5 esopianeti? Appare quanto mai opportuno cominciare ad utilizzare un termine preciso anche per questa categoria di affermazioni provenienti dalla comunità (o Autorità) scentifico-accademica ufficiale. A voler essere buoni e il termine "esopianeti" da lo spunto per creare un nuovo neologismo: d'ora in avanti queste affermazioni ufficiali (molto simili ad opinioni e fatta salva la buona fede di chi le diffonde) che però di metodo scientifico hanno ancora troppo poco per essere meritarsi l'appellativo di scientifiche, le definirei "Esoscienza". (Eso, dal greco éxō, che significa “fuori”, “dall'esterno”). Infatti, ritenere che esista un qualcosa sulla base di una semplice deduzione (sebbene supportata da dati) è un qualcosa che esula dall'ambito strettamente inerente al metodo scientifico.

Mi chiedo quale differenza ci sia dal punto di vista Scientifico (con la S maiuscola) affermare sulla base di calcoli, che esistono degli esopianeti (come in questo caso) o che esistano civiltà avanzate aliene (vedi equazione di Drake). Sebbene nel primo caso i dati, poi rielaborati e presi a base per il calcolo, provengano da rilevazioni strumentali e nel secondo, i risultati sono calcoli di tipo probabilistico basati però sulle attuali conoscenze astronomiche (numero di pianeti, stelle, ecc.), in entrambi vediamo applicato un analogo metodo "scientifico".

Eppure, nel caso della diffusione di notizie (di esoscienza) riguardanti l'esistenza (solo probabile, per via del metodo di rilevamento) di nuovi pianeti, si prende quasi per certa la loro esistenza, mentre nel caso dell'esistenza di civiltà aliene il tutto è continuamente ricondotto a più probabili fantasie o a ipotesi remotissime. 

E questo è soltanto un piccolo esempio. Perché si "accetta", come in questo caso, l'esistenza di esopianeti sulla base di deduzioni fatte dall'elaborazione di dati riguardanti le oscillazioni gravitazionali, e invece si accoglie con scetticismo la possibile esistenza di altri pianeti e/o oggetti (trans nettuniani, cioè oltre l'orbita di Nettuno) nel nostro sistema solare (che qualcuno chiama Pianeta X o Nibiru), calcolata con il medesimo sistema? Che cosa dire delle diverse considerazioni sulla datazione di siti ed eventi sulla base degli allineamenti astronomici, come nel recente caso della stele dell'Avvoltoio a Gobekli Tepe? Vogliamo parlare delle differenti e palesemente pretestuose interpretazioni dei petroglifi paleolitici ritrovati in tutto il mondo in cui qualcuno affine alla comunità scientifica ufficiale, ha visto addirittura la natività?  Che dire poi della teoria dell'evoluzione? (Potrei continuare ma mi fermo qui)

La differenza non è dunque solamente nella mente di chi fa certe affermazioni (a cui potrebbe dare un peso diverso secondo la propria convenienza o della propria opinione personale) ma anche nella mente di chi le ascolta (che potrebbe dare un peso diverso a queste notizie per gli stessi identici motivi, se non addirittura sulla base di preconcetti derivanti dal tipo di "indottrinamento culturale" ricevuto o dalla scarsa conoscenza delle materie scientifiche).

Tuttavia è bene ricordare che la differenza tra credere e sapere è la stessa che passa tra fede e scienza.

E' bene sempre documentarsi e porsi le opportune domande, cercando poi risposte logiche e intellettualmente oneste, senza abbandonarsi alla pigrizia dell'accettazione della teoria prevalente o delle mode del momento. Sebbene sia certamente utopistico immaginare di potersi documentare sempre su qualunque cosa, sarebbe certamente opportuno, nell'impossibilità di documentarsi liberamente e provare a formarsi una propria opinione, sospendere ogni giudizio, evitando di abbracciare fideisticamente l'una o l'altra tesi.

Galileo Galilei, considerato il padre della scienza moderna, oltre 6 secoli fa disse: "Non riesco a credere che lo stesso Dio che ci ha dotato di senso, ragione e intelletto, ci ha destinati a rinunciare al loro uso" e ancora "In questioni di scienza, l’autorità di un migliaio di persone non vale tanto quanto l’umile ragionamento di un singolo individuo. Le verità scientifiche non si decidono a maggioranza."

Non dobbiamo avere timore di manifestare le nostre idee o nel valutare nuove teorie. Aprire la mente verso possibilità apparentemente irraggiungibili è la strada per l'evoluzione culturale e spirituale dell'umanità. Ciò che sappiamo è solo una parte di ciò che c'è da sapere. La fantascienza (per lo più) non esiste, siamo noi che in quel momento la definiamo tale per mancanza di informazioni o di capacità tecnologiche. La scienza nega ciò che non sa dimostrare, la storia ce lo insegna e il tempo lo dimostrerà ancora.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore

 

Continua...

Marte: l'acqua è ovunque!

Marte non è quel pianeta inospitale com’è stato da sempre dipinto. Negli ultimi 15 anni si è scoperto con certezza che c'è acqua sul pianeta rosso.

Se inizialmente si riteneva che l'acqua fosse confinata soltanto nei depositi polari di ghiaccio, oggi la situazione è cambiata drasticamente. La scoperta dei primi depositi di ghiaccio nelle regioni polari, risale al 2001. All'epoca, la presenza di probabili depositi di ghiaccio fu evidenziata dall'analisi dei dati della sonda orbitale Odyssey (così chiamata in onore dell'autore di "2001 Odissea nello spazio", Arthur C. Clarke), lanciata nel 2001 dalla Nasa, dotata di fotocamere termiche e spettrometri per individuare la presenza di acqua liquida o ghiaccio. La presenza di ghiaccio fu poi confermata nel 2008 dal Lander Phoenix, inviato per esplorare in quelle regioni marziane, dotato di un braccio robotizzato che riuscì a "grattare" la superfice del pianeta rosso, confermando la presenza di ghiaccio appena sotto.

Nel settembre del 2015, la Nasa organizzò poi una conferenza stampa per rivelare la scoperta di corsi d'acqua che compaiono periodicamente sulla superfice del pianeta, lasciando striature scure. In quest’occasione ad annunciare la scoperta era stato Luju Ojha, giovane ricercatore del Georgia Institute of Technology. "Abbiamo raccolto le prove chimiche" aveva spiegato, facendo scorrere una serie di slides e soprattutto mostrando la spettacolare animazione in 3D di un cratere marziano. L'immagine del cratere (noto come Hale Crater) era eloquente anche per i non addetti ai lavori. Dalla sommità si propagano tante linee scure e parallele, l’evidenza visiva che l’acqua, in certe condizioni, si manifesta su Marte così come noi terrestri siamo abituati a vederla. Liquida, appunto. Le linee, che nel gergo dei geologi sono le straordinarie Rsl (acronimo di Recurring Slope Lineae) erano state individuate da un altro satellite in orbita marziana, il Mars Reconnaissance Orbiter. Nel successivo studio pubblicato su Nature Geoscience, si spiegava come i dati fossero inconfutabili. I solchi sono lunghi centinaia di metri e larghi cinque. E' lì che scorre l’acqua durante l’estate marziana, svanendo d’inverno.

Il cratere in questione (Hale Crater) si trova nell'emisfero sud marziano a circa metà strada tra l'equatore e il polo sud.

Oggi i dati della sonda Odyssey (che è ormai divenuta la missione ancora attiva, in questo momento più anziana operante su Marte) hanno fornito la prova che depositi di ghiaccio sussistono anche nella regione equatoriale di Marte.

Uno degli strumenti di Odyssey, misura i neutroni scatenati sulla superficie marziana dai raggi cosmici che colpiscono il pianeta. Dalla misurazione di questi neutroni, gli scienziati possono misurare la quantità d’idrogeno (e quindi, verosimilmente la quantità di acqua) presente nel metro più alto di terreno sulla superfice. In piccole quantità, l'acqua può assumere molte forme in minerali idratati o come piccole particelle di ghiaccio bloccate tra particelle di sabbia o di siluro. Quando i livelli salgono però al di sopra del 26%, come appunto in questo caso, gli scienziati sono abbastanza sicuri che i depositi di ghiaccio si trovi lì, appena sotto la superficie. Lo ha affermato Jack Wilson, uno scienziato planetario presso l'Applied Physics Laboratory di Johns Hopkins University a Laurel, Maryland.

La scoperta non si limita ad un solo deposito ma ad una serie di depositi distribuiti a macchia di leopardo su tutta l'area presa in esame.

Diverse regioni su Marte sono potenzialmente ricche di acque (blu scuro), comprese zone ampie vicino all'equatore.

"Questo è un esempio davvero meraviglioso di come i dati, una volta raccolti, possano essere analizzati con nuove tecniche", spiega Jim Head, geologo planetario dell'Università Brown. "Quando finalmente invieremo la gente a Marte, vorremmo inviarli dove c'è l'acqua".

La scoperta di grossi depositi di ghiaccio d'acqua sepolti in terreni poco profondi, vicino all'equatore di Marte potrebbe suscitare speranze per gli astrobiologi che cercano la vita su Marte o per i futuri coloni che cercano una fornitura di acqua, tuttavia tale presenza suscita anche un mistero per gli scienziati del clima marziano.

I depositi di ghiaccio, infatti, rappresentano anche un rompicapo. Secondo i modelli attuali del clima di Marte, il ghiaccio equatoriale su Marte non può persistere per più di 125.000 anni. Questo perché sublimerebbe gradualmente nell'atmosfera, anche se sepolto sotto uno strato superficiale di terreno isolante.

Quali le possibili spiegazioni?

Se il ghiaccio veramente esiste, potrebbe essere la prova di un cambiamento nell'asse rotazionale di Marte entro tale intervallo di tempo, spiega l'astrofisico Jack Wilson. A differenza della Terra, Marte non ha una grande luna per aiutare a "soffocare" la vibrazione a lungo termine del suo asse orbitale. Se l'asse del pianeta però, si fosse inclinato più del suo attuale 25°, un certo ghiaccio polare si sarebbe sublimato e si è spostato verso le latitudini più basse.

Lo stesso Jack Wilson riconosce che la spiegazione avanzata è assai improbabile, poiché l'asse rotazione di Marte non dovrebbe oscillare su scale così rapide.

Un'altra possibilità, ha affermato sempre Wilson, è che la composizione del suolo di Marte, fornisca anche una barriera al vapore per aiutare a soffocare la sublimazione e l'isolamento fisico.

Ad ogni modo, indipendentemente dalle cause per le quali il ghiaccio equatoriale è arrivato lì, se come nel caso del cratere Hale, trova un modo per raggiungere la superficie e talvolta si scioglie, potrebbe fornire un ambiente accogliente per i microbi, e per la vita in generale.

Marte, il pianeta rosso, il pianeta che nel nostro sistema solare è più simile alla Terra e come la Terra si trova nella cosiddetta fascia abitabile (né troppo lontano né troppo vicino al Sole), potrebbe essere molto più ospitale di quanto si riteneva solo pochi anni fa. Più si studia questo pianeta e più emerge chiara la possibilità che il pianeta rosso, ritenuto già abitabile in un remoto passato, conservi ancora apparentemente ben celate, tutte le caratteristiche per tornare ad ospitare forme di vita, ad ogni latitudine, sempre ammesso che d'indigene non ce ne siano più. Quando quel giorno arriverà, gli alieni saremo noi ... o forse no!

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...

Imparare dormendo è possibile

Imparare dormendo è possibile, ma solo in alcuni momenti, quelli in cui si formano i nuovi ricordi.

Per i più attenti alle ricerche scientifiche nel campo delle neuroscienze, questa non è certo una novità, ma ormai una realtà molto concreta, non soltanto dal punto di vista teorico ma anche da quello tecnologico.

Già nel 2015 riportavo nel mio libro la possibilità già in fase sperimentale di creare ricordi "artificiali" direttamente nel cervello.

Successivamente, nel novembre del 2015 tornavo a ribadire l'argomento nell'articolo dal titolo "e se matrix fosse vero" evidenziando come, la carenza di conoscenza scientifica, porta comunemente a ritenere fantascienza, concetti e realtà scientifiche concrete.

Nel frattempo i progressi in questo settore viaggiavano veloci e moltissimi altri studi, ricerche ed esperimenti hanno dimostrato questa possibilità scientifica e tecnologica.

In realtà l'aumentata conoscenza ottenuta sul funzionamento del cervello, permette oggi alla scienza (anche se ufficialmente, tutto ciò avviene al momento solo in via sperimentale) di interagire sulle diverse aree del cervello, con l'obiettivo spesso raggiunto con successo, di interferire sulla sua attività dello stesso, condizionando o determinando addirittura il comportamento dell'individuo oggetto di questa "sperimentazione".

Nel Febbraio 2016 e nel dicembre 2016, altri due studi uno ad opera dei ricercatori del HRL Laboratories, con sede in California, e l'altro condotto dai quelli dell’Università di Washington pubblicato sulla rivista Frontiers in Robotics and AI, avevano dimostrato la possibilità di far interagire in modo diretto e bidirezionale, il cervello umano con l'intelligenza artificiale (leggi l'articolo).

Nel mese di luglio 2016 in una serie di 6 articoli, facevo il punto su questo aspetto della ricerca scientifica, raccogliendo e citando tutte le ultime ricerche in grado di dimostrare inequivocabilmente tutto questo.

Pochi giorni fa, nel mese di Agosto 2017, un nuovo studio, condotto da un gruppo di ricercatori francesi con a capo la Scuola Normale Superiore di Parigi, che è stato pubblicato sulla rivista Nature Communication, ha confermato questa realtà.

Sonno e memoria sono profondamente legati e, sebbene questo sia ormai noto, alcuni esperimenti condotti sull'uomo che miravano all'apprendimento durante il sonno, avevano dato risultati contrastanti.

Secondo i ricercatori francesi, queste discrepanze, sono dovute al fatto che le diverse fasi del sonno sono caratterizzate da diversi tipi di attività cerebrale, per cui in alcune è possibile imparare in altre no (leggi anche quanto scritto nell'articolo precedente).

Per verificare questa ipotesi, gli autori dello studio hanno sottoposto alcuni soggetti a un test, nel quale i partecipanti sono stati fatti addormentare e, durante il sonno, sono stati sottoposti a sequenze di suoni. Al loro risveglio gli è stato di riconoscere i suoni ascoltati. I risultati del test hanno confermato che l'apprendimento avviene solo in alcune fasi del sonno.

Il sonno infatti, non è costante, ma costituito di cicli, in cui si alternano due fasi: la fase REM (Rapid Eyes Moviment), accompagnata da sogni e caratterizzata da movimenti rapidi degli occhi e la fase NREM, non legata al movimento rapido degli occhi  composta a sua volta da diversi stadi in cui il sonno diventa via via più profondo.
Lo studio condotto dai ricercatori francesi, ha dimostrato  ancora una volta, che è possibile apprendere durante il sonno. Ciò è possibile principalmente nella fase Rem, ma anche successivamente, durante la cosiddetta fase NREM di sonno leggero . I ricercatori hanno invece constatato che l'apprendimento è inibito durante la fase NREM di sonno profondo.

Questa tecnologia è oggi ufficialmente a nostra disposizione ma la domanda è: ne sapremo fare un uso utile e consapevole?

Il timore (spesso fondato) è che queste tecnologie vengano utilizzate in modo distorto, addirittura come armi. Fantasie? Non lo era anche questa possibilità scientifica?

A riguardo è utile evidenziare che queste tecnologie non dobbiamo considerarle reali soltanto nel momento in cui ne veniamo a conoscenza, perché se una cosa è scientificamente possibile, lo è da sempre e non soltanto da  quando noi ne diventiamo consapevoli.

Stefano Nasetti

© Tutti i diritti riservati. E' vietata la riproduzione, anche solo parziale dei contenuti di questo articolo, senza il consenso scritto dell'autore
Continua...