I "furbetti" della scienza italiana
Che la scienza non avanzi nel modo più auspicabile possibile è certezza, almeno per chi la vive, la frequenta o anche soltanto prova a seguirla assiduamente. Qualcuno potrebbe affermare che, in buona sostanza, è sempre stato così. Gli interessi di pochi sono sempre stati lo “stimolo” e l’obiettivo del progresso scientifico o del suo rallentamento, quando in ballo c’era da tutelare lo status quo. Ciò nonostante se è vero com’è vero, che da sempre, nelle varie epoche, pochi individui divenuti “autorità scientifiche”, hanno orientato, sospinto, promosso ma anche ostacolato e rallentato la ricerca, forti del potere acquisito e certamente per troppo tempo mantenuto, a partire dalla fine della seconda metà del secolo scorso, in alcuni paesi, si è cercato di smantellare questo sistema ostruzionistico, poco meritocratico e molto penalizzante per gli interessi collettivi. Ciò è avvenuto, sia chiaro, non perché qualcuno si è reso conto che bisognava anteporre gli interessi collettivi e il progresso dell’umanità davanti agli interessi personali, no, tutt’altro.
La spinta al cambiamento è avvenuta dall’interno della comunità scientifica stessa, cresciuta in modo enorme, con lo sviluppo e la diversificazione delle tradizionali discipline scientifiche.
Solo per fare un esempio, accanto alle tradizionali branche della scienza come, medicina, fisica, astronomia, archeologia, l’ingegneria, ecc, sono apparsi e si sono imposti nel secondo dopoguerra, complici le scoperte scientifiche stesse, dei sottocampi specialistici che spesso combinano discipline diverse, come la biologia molecolare, le biotecnologie, la robotica, la fisica quantistica, l’astrofisica, l’astrobiologia, astro archeologia, l’ingegneria aeronautica e spaziale, ecc.
Con il proliferare delle discipline è cresciuto, di pari passo, anche il numero dei ricercatori, che prima della fine della seconda guerra mondiale si potevano contare in poche migliaia, mentre oggi sono certamente nell’ordine di diverse decine di migliaia (o anche più).
Per le “superstar della scienza”, che controllavano il sapere e il progresso scientifico, era quindi divenuta impresa ardua riuscire a mantenere le proprie posizioni di potere di fronte ad un numero così elevato di scalpitanti ricercatori che avevano ambizione e volontà di affermarsi, o anche semplicemente, ritagliarsi un piccolo e meritato spazio nel solo affascinante mondo della scienza. Già, il mondo della scienza, un mondo solo in apparenza idilliaco poiché, al contrario, spesso controllato come detto, in modo dittatoriale e con un assolutismo anacronistico, quasi di stampo medievale, in cui dal re dipendevano, a cascata, vassalli, valvassori e valvassini. Il sistema pesiste ed è ancora ben visibile a chi abbia frequentato, anche solo per pochi anni, ma in modo attento, le università, anche italiane.
Si è dunque deciso di introdurre criteri apparentemente più “democratici” (ma la scienza non dovrebbe esserlo, poiché le verità scientifiche non si decidono a maggioranza) e soprattutto più oggettivi e meritocratici.
Nel tentativo di togliere potere discrezionale alle superstar della scienza, sì è deciso di “misurare” l’importanza di uno scienziato, di un ricercatore, non sulla base semplicemente qualitativa (la qualità è spesso un qualcosa di molto soggettivo) ma su base quantitativa, adottando prevalentemente due indici di misurazione. Il primo è il numero delle pubblicazioni (risultati di ricerca, articoli scientifici, ecc) che ciascun ricercatore riesce a far pubblicare in un dato intervallo. Il secondo indice è il numero delle citazioni che gli studi pubblicati dal ricercatore preso in esame, riceve nel corso del tempo, da parte di altri scienziati di tutto il mondo.
Così facendo, combinando i due risultati, si poteva secondo le intenzioni di chi ha inventato questo sistema di valutazione, “misurare” oggettivamente l’importanza di un ricercatore e l’incidenza dei risultati delle ricerche da esso compiute.
In un settore, quello della ricerca scientifica, dove da sempre, ma in special modo dal secondo dopoguerra, il precariato l’ha fatto da padrone, quello che doveva essere una misura è però divenuto un obiettivo. In ballo non c’era (e non c’è tuttora) soltanto una posizione di prestigio nel mondo scientifico, ma la propria sopravvivenza dal punto di vista lavorativo.
In precedenti articoli di questo blog, ho già trattato in modo specifico l’argomento dei mali della scienza, evidenziando come il nuovo sistema di valutazione ha portato a ll’adozione del principio “pubblica o muori”, principio che ha trovato terreno fertile con il proliferare delle riviste ad accesso libero, sorte con il nobile intento di stroncare il business delle pubblicazioni scientifiche e rendere la conoscenza scientifica ad appannaggio di tutti, ma poi trasformatesi in alcuni casi in riviste predatorie.
In Italia, da sempre fucina di talenti in ambito scientifico, il sistema antiquato dei baronati scientifici ha resistito a lungo, complice anche la compiacente politica che ha deciso di adottare il sistema apparentemente più meritocratico e oggettivo sopra descritto, soltanto nel 2010.
La legge Gelmini ridisegnò il sistema della ricerca in Italia, adeguandolo a quello degli altri paesi del G10, tagliando i finanziamenti (già di per sé scarsi) e introducendo dei criteri di valutazione basati su indici bibliometrici (numero di pubblicazioni, di citazioni, e h-index del ricercatore - una misura combinata della produttività e dell'impatto della citazione). Il compito di raccolta dei dati bibliometrici e di stilare le classifiche dei ricercatori in base agli indici stabiliti per legge, è stato attribuito all’Anvur, (l’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca), che accentra diverse competenze tra cui anche il compito di stabilire le soglie minime di accesso ai finanziamenti e altre possibilità di ricerca e carriera.
Così come già avveniva negli altri paesi, da quel momento in poi, anche in Italia se non si superano le soglie bibliometriche imposte da tale sistema, non si può accedere a fondi per i laboratori, niente abilitazione scientifica nazionale per i ricercatori, zero possibilità di vedersi assegnare fondi per ricerche, nessuna speranza di essere anche solo presi in considerazione per entrare a far parte (con ruoli secondari o marginali) in team di ricerca di scienziati o ricercatori più “quotati”, per non parlare poi della possibilità di poter essere valutati per ricoprire ruoli di prestigio in aziende statali o parastatali (come vedersi assegnare una cattedra universitaria) o in aziende private di rilevante importanza. Possibilità zero, nulla, niente! Più publish or perish di così!
Anche la riforma Gelmini, così come tutte le precedenti e analoghe riforme già avvenute negli altri paesi, aveva come obiettivi quello di ottimizzare le poche risorse economiche (di fonte statale) disponibili ed eliminare la piaga del nepotismo (ancora molto diffusa soprattutto in ambito accademico), puntando sulla meritocrazia e quindi sulla valorizzazione delle risorse umane e, al contempo, magari riuscir anche a dare nuovo slancio al settore della ricerca scientifica nazionale.
Oggi un nuovo studio pubblicato (settembre 2019) dalla rivista Plos One e compiuto da Alberto Baccini, Giuseppe De Nicolao e Eugenio Petrovich dell’’Università di Siena e dell’Università di Pavia, sembra indicarci ancora una volta e soprattutto per l’Italia, che la “cura” sembra essere stata più dannosa della malattia che voleva o doveva curare.
Precedenti studi avevano certificato finalmente la presenza di alcuni “mali” che affliggono il mondo scientifico. Si tratta di situazioni poco note al grande pubblico ma ben chiare a chi di scienza si occupa e si interessa assiduamente già da anni. In questi precedenti studi si rilevava un crescente atteggiamento di frazionamento, “alterazione”, e addirittura falsificazione dei risultati degli studi (le vere fake news scientifiche provengono dall'interno della comunità scientifica), al fine di aumentare il numero delle pubblicazioni e ottenere citazioni, anteponendo gli interessi personali legati alla logica del “publish or perish” a quelli scientifici più puri (il conseguimento della conoscenza al fine di perseguire un maggior benessere per l’umanità), atteggiamento tra l’altro favorito spesso da enormi interessi economici di lobby (in special modo quello del settore chimico-farmaceutico). Come se ciò non bastasse, la ricerca appena pubblicata ha posto in evidenza una nuova tendenza, in apparenza prevalentemente italiana.
Del resto soprattutto nel nostro paese, intriso d’ideologia capitalista e consumista e progressista, con tutto ciò che essa porta e comporta, l’ipocrisia, l’egoismo e l’egocentrismo sono ormai il fulcro della vita della stragrande maggioranza delle persone. Ne sono evidenza i social network e il modo in cui sono continuamente utilizzati in tutto il mondo, senza distinzione sociale alcuna, sia ben chiaro!
Tutti (o quasi), indipendentemente dal titolo di studio, dalla posizione lavorativa ricoperta, dall’estrazione culturale e/o politica, utilizzano i social network per mettere al centro della scena se stessi. Misurano il proprio ego in base al numero dei propri “followers”. Usano valutare il proprio comportamento sulla base dei “like” ricevuti e delle “condivisioni” che i propri post hanno. E’ pratica sempre più frequente e diffusa soprattutto su Facebook e Youtube (ma anche sugli altri social), quella di chiedere esplicitamente di mettere un like e condividere i loro post in modo incondizionato, spesso in virtù di una “amicizia” del tutto virtuale o di un ricambio di favore alla prima occasione, in modo da “emergere” reciprocamente ed essere così premiati dagli algoritmi che governano i motori di ricerca e i social. Più di qualcuno nella comunità scientifica probabilmente si è chiesto: “Perché non adottare lo stesso stratagemma in ambito scientifico?”
Lo studio pubblicato da Plos One evidenzia proprio l’adozione di questa metodologia un po’ furbetta, in special modo per l’Italia dove sembra valere sempre il detto popolare “fatta la legge, trovato l’inganno!”.
In Italia, a seguito dell’entrata in vigore della legge Gelmini, la ricerca italiana sembrava aver messo il turbo e, negli ultimi anni, sembra aver superato “per peso” quella di quasi tutti i paesi europei.
Sulla base degli indici bibliometrici introdotti con la riforma, infatti, l’impatto della ricerca italiana è aumentato talmente tanto che nel 2016 il rapporto di SciVal Analytics (SciVal è un’analisi dei risultati scientifici effettuato dalla società Elsevier, azienda globale di analisi delle informazioni, specializzata in scienza e salute) dava il nostro paese al secondo posto nella classifica dei paesi del G10, inferiore solo al Regno Unito. Stando a questa classifica, addirittura la ricerca italiana” pesa “di più di quella statunitense.
Più di qualcuno, dall’interno della comunità scientifica, non aveva perso occasione di magnificare risultati ottenuti, principalmente attraverso i mass media mainstream e sovente con ampio appoggio politico, soprattutto della corrente progressista (benché non autrice della riforma) ma che da sempre si autoproclama musa ispiratrice e divinità protettrice della comunità scientifica italiana (nella quale trova, non a caso, notevoli consensi che tornano utili di tanto in tanto per giustificare leggi impositive insensate – vedi legge sull’obbligo vaccinale). Così facendo si è cavalcata l’onda, illudendo (in modo consapevole o in modo colposamente inconsapevole, ciò non è possibile saperlo) il pubblico di esser riusciti a trovare la ricetta giusta per i mali che affliggono la scienza, anche italiana, per tornare a conferirle quell’aurea di infallibilità, oggettività, imparzialità, onestà e quindi, d’indiscutibilità che tanto fa comodo di questi tempi. Il messaggio era chiaro “Nessuno si permetta di criticare le autorità scientifiche!”.
Una così rapida ascesa dell’Italia nel ranking mondiale non poteva però, non sollevare la curiosità di molti, che giustamente si sono messi a studiare il caso, facendo le pulci al sistema e avanzando il sospetto che ci sia qualcosa che alteri le valutazioni.
Ciò che è emerge dall’analisi dei dati, è che in Italia sembra emergere una “anomala” tendenza ad auto citarsi o a citare prevalentemente gli studi di ricercatori “amici”, quasi ci fossero dei veri e propri club, dove è fatto obbligo ai soci di preferire, e dunque “favorire” citandoli, gli studi di altri soci dello stesso club, in occasione della pubblicazione di un proprio studio. La finalità di questi “club scientifici”sarebbe quella di aiutarsi a vicenda a superare le soglie bibliometriche dell’Anvur.
L’autoreferenzialità potrebbe sembrare un peccato veniale, invece non lo è. Alterando volutamente il sistema di misurazione con queste pratiche da “furbetti” si vanifica, di fatto, il tentativo di premiare chi davvero fa studi di potenziale utilità collettiva e nessuna giustificazione dovrebbe essere accettata.
In ambito economico, le aziende che adottano analoghi comportamenti di cooperazione per trarre reciproco vantaggio si chiamano “cartelli” e sono vietati per legge. In politica le forze pubblicamente contrapposte che invece in segreto formano gruppi d’interesse si chiamiamo “lobby”, e per definire gli accordi che regolano questi patti (talvolta temporanei), in Italia è ormai utilizzata una parola dialettale, cioè “inciucio”. Le forze che segretamente costituiscono lobby e che inciuci ano, sono spesso biasimate e condannate almeno moralmente, dall’opinione pubblica.
E adesso che è stato accertato che ciò avviene anche nel mondo scientifico? Quale sarà la reazione dell’opinione pubblica? Quale sarà il giudizio delle forze politiche benpensanti composte dall’intellighenzia del nostro paese? Governi, Ministri e altre istituzioni cosa faranno? Quali provvedimenti prenderanno nei confronti di chi ha attuato queste pratiche? Quale sarà la reazione dei mass media? Visibilità della notizia, commenti o reazioni sono state molto poche e quasi sottovoce.
Analizzando le pubblicazioni contenute nel database Scopus di Elsevier tra il 2000 e il 2016 per i paesi del G10, i tre ricercatori italiani delle Università di Siena e di Pavia hanno sviluppato un nuovo indice bibliometrico, l’inwardness, che misura quante delle citazioni totali ricevute da un paese provengono dal paese stesso e ha diviso questa cifra per il numero totale di citazioni accumulate dal paese.
Tutte le nazioni del G10 prese in esame, hanno mostrato nel tempo un modesto aumento d’interiorità (vale a dire di citazioni in date e ricevuto in ambito nazionale o da ricercatori “amici”, cioè che hanno collaborato a un medesimo studio), che può essere, in alcuni casi, paradossalmente spiegato da una crescita delle collaborazioni internazionali. Queste, infatti, ampliano il numero di articoli dai paesi partecipanti che potrebbero essere citati. Prendiamo, ad esempio, un articolo scritto da collaboratori di ricerca in Italia e Francia: qualsiasi citazione a quest’articolo da una pubblicazione di autori italiani o francesi verrà considerata come una citazione intranazionale sia per l'Italia sia per la Francia.
Dai risultati è emerso che in tutti i paesi considerati, l’autoreferenzialità è aumentata nel tempo, ma per l’Italia c’è stata una vera e propria impennata dal 2010, l’anno della riforma. Al 2016, circa il 31% delle citazioni italiane proveniva da autori all’interno dei confini italiani, più di qualsiasi altro paese (a eccezione degli Stati Uniti, la cui situazione però non è comparabile a quella dell’Italia).
L'impennata non può essere attribuita alle collaborazioni internazionali, perché il tasso di crescita dell'Italia per le collaborazioni internazionali tra il 2000 e il 2016 è stato anemico se paragonato a quello di altre nazioni.
I risultati sono "inquietanti", afferma Ludo Waltman, un esperto bibliometrico alla Leiden University nei Paesi Bassi che non era coinvolto nello studio. “Per limitare le discutibili pratiche di citazione, afferma Waltman, il sistema di valutazione italiano dovrebbe escludere le citazioni personali e considerare fattori come l'esperienza e le attività di un ricercatore oltre ai conteggi delle citazioni”.
Secondo gli autori dello studio appena pubblicato su Plos One, infatti, la responsabilità andrebbe probabilmente cercata anche nel modo in cui la ricerca in Italia viene valutata. Mettono quindi in discussione i criteri dell’Anvur che utilizzano le referenze come parametro per dare un punteggio alle performance di dipartimenti, atenei e scienziati stessi, e assegnare fondi e posizioni accademiche.
È indiscutibilmente vero che il legislatore ha affidato all’Anvur troppi compiti e competenze che spesso sono in conflitto d’interesse tra loro, oltre al fatto che anche la struttura interna dell’Anvur stessa rappresenta un’anomalia rispetto a quanto avviene in analoghe agenzie degli altri paesi. All’estero non c’è mai solo un ente ad accentrare tutte le attività di valutazione, misurazione e affidamento ma ci sono più agenzie, ciascuna con una propria struttura e competenza specifica.
Come dicevo poc’anzi, ora che è emerso il malcostume, non tutto, ma prevalentemente italiano di aggirare le regole del gioco, la comunità scientifica stessa (di cui gli autori italiani della ricerca fanno parte) cercano di giustificarsi spostando l’obiettivo sul piano politico, anziché biasimare senza appello, i loro colleghi e chi è abituato a far uso di questo tipo di pratica deontologicamente poco professionale e corretta.
Non tragga in inganno il fatto che sia oggi una ricerca italiana a denunciare tale malcostume. La questione stava comunque venendo fuori in ambito internazionale.
Marco Seeber, un ricercatore di politica scientifica all'Università di Gand in Belgio, intervistato sul tema dal portale web della rivista Science, afferma che la crescita dell'interiorità italiana è "sorprendente". A marzo, Seeber ha studiato l'uso nel nostro paese, delle metriche relative alle citazioni e ha riscontrato anch’esso, aumenti sostanziali delle auto citazioni dopo la riforma del 2010 . "La politica è stata motivata da intenzioni meritevoli" – ha detto Seeber - "Ma gli indicatori bibliometrici dovrebbero essere utilizzati per informare piuttosto che determinare le valutazioni."
Seeber ha affermato anche che non è chiaro quanta interiorità dell'Italia provenga dall'autocitazione e quanta dai “club di citazione”. Per scoprire per certo l’esistenza di questi club, bisognerebbe esaminare i singoli documenti per poter distinguere le citazioni “false” (o per meglio dire frutto di amicizie) da quelle “legittime”.
John Ioannidis, medico-scienziato dell'Università di Stanford a Palo Alto, in California, anch’esso interpellato nella medesima circostanza, sospetta invece che i club di citazione esistano e siano effettivamente responsabili della tendenza prevalentemente italiana.
Ioannidis, aveva già creato un database con cui che ha rivelato l’esistenza di centinaia di ricercatori veramente citati, in modo quasi anomalo. In conformità a quest’ulteriore risultanza, Ioannidis sostiene che il nuovo studio pubblicato da Plos One fornisce è solo un'altra prova di come gli indici di misurazione possano essere utilizzate in modo improprio. Infatti, fa notare come le citazioni di sé sono necessarie se uno studio si basa su precedenti lavori degli autori o dei loro colleghi. "Ma se qualcuno ha accumulato più della metà delle citazioni da se stesso o dai suoi coautori, è piuttosto strano" – ha detto - "Devi dare un'occhiata più da vicino."
Infine, l’associazione italiana Roars (Return on academic research) interpellata stavolta dal portale Wired, non è d’accordo con le soluzioni e le valutazioni proposte, in special modo con quella di Ludo Waltman che, come abbiamo visto, punta il dito anziché sulla pratica deontologicamente poco lusinghiera dei ricercatori italiani, sul sistema di valutazione auspicandone il cambiamento.
Secondo Roars, si tratta di una soluzione semplicistica e destinata a fallire. Anche nel caso di Roars tuttavia, si cerca di distogliere l’attenzione dalle responsabilità dei ricercatori, addossandole invece in toto chi fa le regole, ma senza lasciarsi sfuggire all’occasione (come da buon costume delle associazioni italiane di categoria) per chiedere più soldi. Per Roars, infatti, “i ricercatori sono estremamente veloci ad adattarsi ai cambiamenti nella science policy - (quasi a dire che sia normale cercare di aggirare le regole per trarre un vantaggio personale – NDR) e qualsiasi nuovo indicatore non farebbe altro che stimolare strategie di amina più raffinate, in accordo con la famosa legge di Goodhart ‘Quando una misura diventa un obiettivo, cessa di essere una buona misura’. Noi pensiamo – ha fatto sapere Roars - al contrario che l’insegnamento da ricavare sia che non esiste alcuna bacchetta magica, bibliometrica o di altro tipo che possa gonfiare la performance scientifica di un Paese. Soltanto un massiccio investimento nella ricerca può farlo” (considerazione condivisibile se non fosse altro che è stata certamente fatta in modo non disinteressato- NDR).
Insomma, qualora non l’abbiate ancora capito, il mondo della ricerca scientifica è lo specchio della società. Ricordatelo la prossima volta che sentite parlare un “esperto”, uno scienziato o un’autorità scientifica. Non vi aspettate maggiore onestà, moralità, senso di responsabilità e imparzialità di quella che attendete di trovare nei discorsi di un qualsiasi politico. Non pensate che le sue affermazioni siano necessariamente oggettive e disinteressate. Continuate ad ascoltare tutto in modo critico accogliendo tutto con “il ragionevole dubbio”. Analizzate e valutate sempre il contenuto delle informazioni senza farvi influenzare troppo dall’autorietarietà e/o dalla spesso presunta autorevolezza della fonte. Pretendete sempre di comprendere le risposte che ricevete e pretendete sempre risposte complete, ragionevoli e coerenti con l’oggettività dei fatti.
Sebbene sia sempre sbagliato fare di tutta l’erba un fascio, e dunque pur dovendo necessariamente precisare che come nella società in generale esistono persone serie, esistono anche scienziati e ricercatori intellettualmente onesti e moralmente integri, la comunità scientifica che il mondo scientifico, lo popola, lo vive e lo governa, non segue logiche diverse da quelle proprie ormai, purtroppo, di ogni altro settore della vita. Logiche fatte d’interessi privati e personali, economici e di lobby, di difesa delle proprie posizioni di privilegio o di strategie eticamente biasimabili, attuate per emergere in modo sistematico, automatico e quasi “naturale”, non solo da sgomitatori e arrampicatori sociali che antepongono se stessi a tutto il resto, ma anche da una nutrita schiera di ricercatori precari che tentano di sfuggire alle logiche di “schiavitù” a cui spesso devono sottostare se vogliono rimanere nell’affascinante ma poco limpido mondo scientifico. Un mondo insomma composto in prevalenza da una massa eterogenea di persone, in cui è possibile trovare sia individui senza valori morali e senza scrupoli, sia persone che valori e morale e dignità ne avrebbero ma che decidono a un certo punto di accantonarli per adeguarsi al sistema e poter “sopravvivere”, sia altri che con non poche difficoltà, si muovono come un elefante in un negozio di cristalli, e riescono a “galleggiare” senza poter emergere ma senza dover scendere a compromessi.
Smettetela dunque, di pensare che la Scienza abbia come fine la conoscenza e il miglioramento delle condizioni umane. L’idea, molto romantica, molto romanzata e quasi “cinematografica” dello scienziato che vive per la scoperta, per il sapere al fine di migliorare il mondo, dovrebbe ormai essere cancellata dalla nostre menti. Ciò non vuole essere una condanna dell’intera categoria.
Lo scienziato è una persona come le altre, che fa, talvolta meritatamente e con non pochi sacrifici, un lavoro certamente affascinante e interessante. Un lavoro che racchiude in se stesso, in modo implicito, una grande importanza e una grande responsabilità dal punto di vista sociale, alla stregua di tanti altri come ad esempio quello del medico, dell’insegnante, del pompiere, del poliziotto, del giudice, ecc. Come in ogni categoria, anche tra gli scienziati c’è chi prende il lavoro con responsabilità, passione e dedizione, e chi invece lo fa solo per portare uno stipendio a casa e basta. Non importa come e a che prezzo.
La Scienza (quella con la S maiuscola) quella che si basa sui dati oggettivi, quelli ottenuti attraverso l’applicazione di un metodo scientifico che riporta solo i dati oggettivi e non decide le “verità scientifiche” a maggioranza, è ormai divenuta cosa estremamente rara. Sovente i risultati delle ricerche di questa sempre più sparuta schiera di scienziati più “puri” e sempre più isolati, non arriva a conoscenza dell’opinione pubblica, sia perché il sistema scientifico “drogato” e “malato” non consente loro di raccogliere i giusti meriti, sia perché l’opinione pubblica è anch’essa troppo distratta a magnificare il proprio ego, troppo concentrata su se stessa per rendersi conto di cose diverse da quelle che gli vengono messe davanti agli occhi.
Per queste persone essere dentro alla massa e aderire anima e corpo al pensiero unico è fondamentale! Non ci sono più valori e principi fondamentali e inalienabili, tutto è in qualche misura giustificabile. Per loro il fine giustifica sempre i mezzi! Non c’è spazio per schierarsi a favore della sana scienza e dei sani ricercatori, perché questi sono fuori dal coro, fuori dal sistema. Per essi, la scienza di regime è la sola da prendere in considerazione, anche quando si contraddice, anche quando è oggettivamente irragionevole.
Per la sparuta minoranza delle persone (forse le sole che saranno arrivate a leggere anche queste ultime righe) che non appartengono a questa categoria, non appartengono alla massa sempre mutevole, irragionevole, irrazionale sempre più strumentalizzata e manipolata, e che hanno ancora la forza di andare avanti, senza rinunciare ai propri valori, alla propria intelligenza, per questi, e solo per questi, la Scienza (quella vera) ci sarà sempre a conciliare la razionalità e la coerenza del proprio pensiero con la realtà oggettiva delle cose. Continuare a divulgare la scienza vera, farlo sempre onestamente e disinteressatamente, esercitando un legittimo spirito critico verso la “scienza di stato”, ancor più oggi che certi mali della scienza sono stati certificati, è l’unico modo di rimanere coesi. Forse così facendo saremo tutti meno soli e un po’ più liberi.
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