Indizi sul nostro passato dall'orbita terrestre?

Dall’ISS (acronimo di International Space Station) arrivano ormai da diversi anni, i dati di esperimenti condotti nello spazio, in assenza di gravità. Gli esperimenti riguardano diverse materie scientifiche e differenti aspetti di esse, da quelli strettamente tecnologici a quelli riguardanti la biologia. Soprattutto negli ultimi mesi sono arrivati dati, poi oggetto di studi, riguardanti la salute e i cambiamenti nel corpo umano dovuti alla lunga permanenza in assenza di gravità.

Questi esperimenti hanno l’obiettivo di comprendere quali sono gli effetti della microgravità e dell’assenza di gravità sulla salute umana, in modo da consentire di valutare rischi ed eventuali soluzioni, qualora nei prossimi anni, l’uomo sia in grado di avventurarsi nel nostro sistema solare con destinazione Luna e Marte, nell’ambito di missioni di lunga durata. I risultati di questi studi non riguardano però soltanto il nostro possibile futuro.

Dai risultati di questi studi sono emersi infatti, anche aspetti interessanti che possono in qualche modo riguardare la ricostruzione della nostra storia e l’interpretazione di alcuni scritti antichi, talvolta declassati a pura mitologia o a interpretazioni fantasiose.

In particolare, tra i tanti, sono stati pubblicati tre differenti studi sui dati provenienti dall’ISS che ritengo particolarmente significati proprio riguardo una più corretta e possibile ricostruzione del nostro passato.

In diverse culture del passato (distanti tra loro migliaia di chilometri e vissute in epoche differenti) è presente il racconto della discesa sulla Terra di esseri “venuti dalle stelle”, dotati di capacità sovrumane, di conoscenze avanzatissime rispetto a quelle popolazioni dell’epoca. Per tali motivi spesso le popolazioni antiche hanno finito per “divinizzare” queste figure (tutt’altro che etere, almeno stando ai racconti giunti a noi), adorarle e talvolta anche provare a imitarle nelle loro sembianze.

       

(Immagini nell'ordine: Raffigurazioni di crani allungati in Egitto; I Wandjina degli aborigeni australiani; Cranio allungato ritrovato in Perù; Confronto tra un teschio umano e quello dello Starchild)

In molte di queste culture queste divinità erano spesso descritte come esseri umanoidi e con crani molto grandi. Esistono molte raffigurazioni di esseri così descritti da Wandjina australiani ad alcuni faraoni egizi o come il teschio dello Starchild, tuttora senza valide spiegazioni. In molte culture si è poi diffusa la pratica della deformazione del cranio con cui, attraverso pratiche poco salutari come la fasciatura del cranio dei neonati, si tentava di “replicare” l’aspetto di questi esseri.

Sebbene la fasciatura del cranio possa avere, se prendiamo singolarmente ogni civiltà, anche altre spiegazioni dal punto di vista antropologico, rimane a oggi inspiegata la contemporanea e così diffusa presenza di questa pratica in popolazione del mondo non coeve e assolutamente (almeno dal punto di vista ufficiale) mai entrate in contatto tra loro.

È stata quindi avanzata l’ipotesi, rigettata ovviamente dalla scienza ufficiale, che le storie dell’arrivo di questi esseri dallo spazio possano avere un fondamento di verità.

Nel numero del mese di maggio 2019, sulla rivista Proceeding of the National Academy of Science (PNAS), è stata pubblicata la ricerca condotta da un team internazionale proveniente da Belgio, Russia e Germania. Il gruppo di ricerca ha ora scoperto un nuovo effetto sul cervello umano a seguito della prolungata permanenza nello spazio, individuando una possibile relazione tra i viaggi spaziali e l’accrescimento dei ventricoli cerebrali.

Il sistema dei ventricoli del cervello è costituito da canali interconnessi a spazi che si susseguono l’un l’altro contenuti nell’encefalo, che provvedono alla produzione del liquido cefalorachidiano (o liquor) e al suo smistamento nel sistema nervoso centrale.

La nuova ricerca ha analizzato i ventricoli cerebrali di 11 astronauti che hanno trascorso diversi mesi a bordo dell’Iss, per una media complessiva di 169 giorni nello spazio. Ciascuno di loro è stato sottoposto a risonanza magnetica prima del lancio, al ritorno dalla missione e infine di nuovo sette mesi dopo.

I risultati mostrano un aumento in media dell’11.6% delle dimensioni di tre ventricoli cerebrali dei cosmonauti appena tornati dallo spazio (immagine ad inizio articolo). Un aumento quindi assai significativo. Sette mesi dopo il termine della missione, i ventricoli restano in media ancora 6.4% più larghi rispetto alle dimensioni che avevano prima dell’esposizione alla microgravità.

Il prossimo passo sarà capire se si tratta di una modifica permanente, oppure che gradualmente si attenua con il passare del tempo.

La domanda ora è: se c’è una correlazione tra la permanenza nello spazio e l’accrescimento di alcune aree del cervello umano, lo stesso avviene anche in altre creature? Al momento non c’è motivo per ritenere che lo stesso effetto non avvenga anche su altri organismi biologici. Questi effetti sono permanenti? Possono legarsi a modificazioni genetiche e poi essere “trasmesse” geneticamente alle generazioni future?  D’altro canto grazie ai moderni studi riguardanti l’epigenetica, oggi sappiamo che le esperienze (anche emotive) di una persona si possono riverberare sul proprio DNA modificandolo e trasmettendo tali “memorie” ai figli.

Quando (e se) in un futuro, l’uomo viaggerà nello spazio con più continuità, le future generazioni umane di viaggiatori spaziali avranno crani sensibilmente più grandi rispetto a ora? Viene dunque da chiedersi: la descrizione di “antiche divinità” scese dal cielo sulla Terra in un lontano passato, a volte descritte aventi crani grandi e allungati, potrebbero essere stati effettivamente esseri di altri mondi abituati a viaggiare nello spazio e che hanno già subito questi effetti legati alla microgravità?

Nel marzo del 2017 è stato pubblicato un altro studio che riguarda questa volta alcune modificazioni genetiche avvenute nel genoma di uno dei due astronauti partecipanti al famoso Twins Study, il programma dell’agenzia spaziale americana dedicato ad analizzare gli effetti della microgravità nello spazio sul DNA di due gemelli.

Si tratta di Scott e Mark Kelly, entrambi astronauti, ma andiamo con ordine. I gemelli Kelly, essendo omozigoti, condividono lo stesso DNA. Inoltre fanno lo stesso mestiere, e quindi hanno avuto una vita piuttosto simile.

Questo ha ispirato la NASA ad attivare un nuovo filone di ricerca dedicato appunto allo studio dei gemelli, per trovare eventuali differenze biologiche tra i due Kelly prima e dopo l’ultima missione.

Ma c’è una grande differenza: Mark ha trascorso in tutto solo 54 giorni nello spazio, mentre Scott ha passato quasi due anni in orbita attorno al nostro pianeta, di cui un anno intero in una missione che si è conclusa nel marzo 2016.

E così, dal ritorno di Scott, gli scienziati hanno iniziato ad analizzare e confrontare i dati genetici dei due fratelli, per trovare eventuali cambiamenti causati dalla microgravità.

Lo studio sui gemelli Kelly ha dimostrato la resilienza e la robustezza di come un corpo umano può adattarsi ad una moltitudine di cambiamenti indotti dall’ambiente spaziale, come microgravità, radiazioni, disturbi circadiani, elevata CO2, isolamento da amici e famiglia e limitazioni dietetiche

I primi risultati, diffusi dalla NASA a gennaio 2017, avevano mostrato che effettivamente qualche differenza c’era: Scott, che ha passato molto più tempo nello spazio, presentava rispetto a Mark alcune alterazioni nell’espressione genica e nella metilazione del DNA, in altre parole quel meccanismo epigenetico usato dalle cellule per gestire appunto l’espressione dei geni.

I cambiamenti osservati riguardano le strutture che si trovano alle estremità dei cromosomi, chiamate telomeri. I telomeri "rappresentano l'orologio della cellula". Secondo quanto è noto in ambito scientifico, ciascuno essere umano nasce con i telomeri di una certa lunghezza e, ogni volta che la cellula si divide, i telomeri si accorciano un po'. Quando diventano troppo corti, la cellula non può più dividersi e inizia così il processo d’invecchiamento.

Quest’orologio cellulare deve essere finemente regolato per due motivi: da un lato, per permettere un numero sufficiente di divisioni cellulari garantendo così lo sviluppo dei diversi tessuti dell'organismo e il loro rinnovo (ogni essere umano vede ciclicamente e completamente “rinnovata” ciascuna cellula del proprio corpo in media nell’arco di circa sette anni); dall'altro lato, invece, deve evitare che avvenga una proliferazione incontrollata, tipica delle cellule tumorali.

Contro ogni aspettativa, in Scott, durante il volo spaziale, queste strutture si sono allungate rispetto a quelle del gemello Mark.

Ciò comporterà una sua maggiore longevità rispetto al fratello rimasto sulla Terra? La scienza non sa ancora rispondere e non esclude questa possibilità.

È dunque possibile che la permanenza nello spazio possa “allungare” le aspettative di vita di un organismo?

D’altro canto questa possibilità era già stata in qualche modo paventata da Einstein con la sua legge della relatività. Secondo Einstein lo spaziotempo è una dimensione relativa. Lo scorrere del tempo è subordinato, infatti, alla velocità. Secondo Einstein dunque, il tempo scorre più lentamente quando si percorre uno spazio con maggiore velocità. Proprio come nel caso dei gemelli Kelly, Scott che ha orbitato per più tempo attorno alla Terra e dunque si è mosso a una velocità maggiore rispetto al fratello Mark rimasto a casa, è invecchiato meno.

Che Einstein avesse ragione era già stato dimostrato in passato con un esperimento che aveva visto due orologi atomici perfettamente sincronizzati, essere messi a confronto dopo che uno dei due era stato caricato su un aereo e aveva percorso il giro del mondo nell’arco di poche ore. Al ritorno l’orologio che aveva compiuto il giro del mondo, e dunque si era mosso più velocemente dell’altro, era indietro di alcuni miliardesimi di secondo. Il tempo quindi per l’orologio che aveva compiuto il viaggio, così come per Scott Kelly era trascorso più lentamente. L’aspetto più interessante è che l’allungamento dei telomeri nelle cellule di Scott Kelly sembrano aver “registrato” e confermato questa variazione di velocità nel trascorrere del tempo.

Il legame di questo studio con il nostro passato, risiede proprio nel possibile allungamento dell’aspettativa di vita in funzione di un viaggio nello spazio (e quindi nel tempo).

In molte delle civiltà del passato, alle divinità che hanno regnato in un’epoca spesso considerata antidiluviana su quei territori, è attribuita una longevità assolutamente inusuale per l’essere umano. Parliamo di regni durati centinaia o addirittura migliaia di anni. Ne abbiamo esempi nelle tavolette d’argilla note come Lista reale Sumera (conservata al British Museum), nel papiro egizio noto con il nome di Canone Regio (conservato presso il museo egizio di Torino) e ancora nella Bibbia dove, i discendenti di Abramo hanno età pluricentenarie che vanno però, via via a rifarsi più consone agli standard umani, col trascorrere dei millenni.

La domanda quindi è: lo studio sui gemelli Kelly, che ha evidenziato un allungamento dei telomeri (ritenuti responsabili della longevità) nelle cellule dell’astronauta Scott, può essere considerati un altro indizio che le storie e gli scritti antichi che narrano di esseri venuti dalle stelle, che hanno attraversando lo spazio sono giunti sulla Terra in un lontano passato, possano effettivamente contenere dei resoconti reali? Questi esseri avevano aspettative di vita così lunghe e anomale se rapportate all’uomo, perché erano abituati a viaggiare nello spazio?

Nel mio primo lavoro editoriale, esaminando l’episodio biblico dell’esodo del popolo ebraico e la sua permanenza nel deserto, avevo valutato l’attendibilità dell’ipotesi avanzata da Peter Fiebag scienziato e filologo tedesco, autore assieme al fratello Johannes del libro “Die Ewingkeits Maschine” (uscito in Italia nel 2007 con il titolo “Custode della reliquia”). Nella bibbia e soprattutto nel libro della Zohar, si legge come il popolo ebraico sarebbe sopravvissuto nel deserto nutrendosi di un cibo chiamato “manna” prodotto da un qualcosa chiamato “l’antico dei giorni”.

Secondo i due ricercatori tedeschi, la descrizione de “l’antico dei giorni” corrisponderebbe a quella di una macchina tecnologica (da loro chiamata “la macchina della manna”). Sulla base della descrizione, i due sono riusciti a costruire un modello che, secondo questa teoria, era in grado di risucchiare l’umidità dell’aria del mattino per condensarla in una parte che sembrava una cupola di plexiglass (“il cervello dell’antico dei gironi”). L’acqua così ottenuta dall’aria era quindi mescolata dalla macchina, con una coltura di alghe. All’interno della stessa macchina, la coltura era trattata con un’energia simile a una forte luce laser, per accelerare la crescita. La macchina sarebbe stata alimentata da una fonte di energia (probabilmente proveniente da una sorta di mini reattore nucleare ante litteram, custodito nell’Arca dell’Alleanza) in grado di favorire e accelerare la crescita di questo strano e super nutriente cibo, la manna appunto.

Nella ricerca di un riscontro scientifico tangibile a questa teoria, mi ero imbattuto in uno studio della Nasa che, negli anni ’60 e ’70, scoprì che la vita umana può essere sostenuta, anche per lunghi periodi, consumando esclusivamente Chlorella.

In merito nel 2015 scrivevo:

“[…] Quest’alga è ricca di clorofilla ed è proprio la clorofilla, di cui l’alga è in assoluto il cibo più ricco (in quantità da 10 a 100 volte superiore di quanto riscontrato nei vegetali a foglia verde), ad agire profondamente nelle dinamiche di disintossicazione dell’organismo.

È stato scientificamente appurato, che quest’alga svolge una forte azione di pulizia dell’intestino e risanamento della flora batterica, mediante l’eliminazione di residui tossici dal fegato e dai tessuti. Ha un’azione di depurazione ematica che costituisce la base per la formazione dell’emoglobina, ed è garanzia di un’importante fonte di linfa vitale, rivitalizza il sistema vascolare, favorisce la cicatrizzazione dei tessuti. Ma non è tutto!

Quest’alga può vantare la presenza di acidi nucleici (DNA RNA), acidi grassi essenziali insaturi, sali, proteine di facile assimilazione e amminoacidi, è molto ricca in ferro (zinco, zolfo, fosforo e altri minerali come il magnesio), di vitamine antiossidanti quali Betacarotene (o Vitamina A), Vitamine del gruppo B (anche la B12 tanto difficile da trovare in natura), Vitamina C e Vitamina E che la rendono “speciale” per il rinforzo del sistema immunitario. Oggi è ampiamente utilizzata in erboristeria e per la preparazione di composti ricostituenti ed integratori alimentari. Un vero e proprio supercibo […]” * (Brano del libro "IL LATO OSCURO DELLA LUNA")

Quest’alga (o qualcosa di simile) può essere stata la “manna” con cui gli ebrei si sono sfamati nel deserto? Se così fosse chi ha fornito questa tecnologia agli israeliti, era un viaggiatore dello spazio? Quest’alga può essere il futuro cibo degli astronauti nelle missioni di lunga durata?

Lo scorso 6 maggio (2019) è arrivato sull’Iss, a bordo della navetta Dragon di SpaceX, il Photobioreactor, un innovativo bioreattore a base di alghe.

L’esperimento utilizza le alghe per convertire l’anidride carbonica esalata dagli astronauti sull’Iss, in ossigeno e biomassa commestibile attraverso la fotosintesi e sarà utilizzato in congiunzione al sistema di riciclaggio dell’aria – l’Advanced Closed Loop System (Acls).

Così come interpretato dai Fiebag per la “macchina della manna”, anche il sistema Acls sull’ISS da un lato estrae metano e acqua dal biossido di carbonio presente all’interno della stazione orbitante, mentre dall’altro il fotobioreattore (o meglio le alghe di cui è composto) utilizzerà il biossido di carbonio rimanente per generare ossigeno, creando una soluzione ibrida.

Così come mi ero chiesto nel mio libro del 2015, l’obiettivo dichiarato del nuovo esperimento è di valutare la possibilità d’impiego di soluzioni simili in vista di future missioni di lunga durata che richiedono più rifornimenti di quanto un veicolo spaziale sia in grado di trasportare.

Anche l’alga scelta per questo esperimento è la medesima che avevo preso in considerazione nel mio libro di ormai 4 anni e mezzo fa!

L’esperimento coltiverà infatti, alghe microscopiche chiamate Chlorella vulgaris a bordo della stazione spaziale. Oltre a produrre ossigeno, le alghe producono anche una biomassa commestibile. La creazione di una biomassa commestibile dal biossido di carbonio all’interno di un veicolo spaziale implica una minore quantità di cibo da trasportare.

A oggi, i ricercatori hanno stimato che le alghe, per via del loro alto contenuto proteico, potrebbero sostituire il 30% del quantitativo di cibo di un astronauta.

È questa serie di “fortuite coincidenze” l’evidenza che invece alcune teorie alternative e interpretazioni non accettate dalla scienza ufficiale circa le antiche leggende del passato, possono invece essere corrette?

Non possiedo ovviamente una risposta a queste domande, ma è interessante riscontrare, ancora una volta e come ho già fatto nel corso di precedenti post e/o nel mio primo lavoro editoriale, come teorie apparentemente ardite che hanno tentato di fornire plausibili spiegazioni riguardo alcune limitate spiegazioni ufficiali della storia, continuino a trovare con il progresso e le nuove scoperte scientifiche, sempre più riscontri. Sebbene forse ancora non sufficienti a far ritenere queste teorie come verità, la presenza di tutte queste circostanze, che si voglia o no considerarle casualità, impongono certamente di dover tenere in considerazione questa “strada alternativa” nella ricerca di una verità riguardo al nostro passato.

Stefano Nasetti

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