Nanorobot mutaforma viaggiano nel corpo umano

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista IL GIORNALE DEI MISTERI nel numero 560 di Marzo/aprile 2022)

Negli ultimi anni, in tutto il mondo della ricerca in campo biotecnologico si è assistito ad un proliferare di studi che, con successo, hanno portato alla realizzazione di micro e nano robot in grado di viaggiare nel corpo umano, non soltanto utilizzando i vasi  sanguigni del sistema cardiocircolatorio, ma capaci anche di mutare forma e viaggiare attraverso le cellule del corpo.

Non lasciamoci però trarre in inganno dal loro nome. La parola “robot” ci evoca subito alla mente un qualcosa di metallico, fatto di viti e bulloni ma in questo caso non è così.

I micro e nano robot realizzati in questi anni da diverse università e istituti di ricerca di tutto il mondo con finalità biomediche, sono composti di materiale biologico e biocompatibile. La loro finalità è stata, fin dall’inizio, molto chiara. “Delle dimensioni di milionesimi di millimetro, i nanorobot potranno essere in futuro utili in medicina, ad esempio per scopi diagnostici, per identificare cellule tumorali, o per liberare farmaci in specifici distretti dell'organismo” sostenevano a gran voce i ricercatori interessati.

È facilmente intuibile l’utilità e l’importanza medica e sociale di queste biotecnologie che, dai primi, approssimativi e non sempre efficaci tentativi, è passata con il trascorrere del tempo, ad un grado di precisione ed efficienza sempre maggiore, al punto che la comunità scientifica interessata ha via via cominciato a farsi carico della risoluzione di alcune problematiche connesse alla diffusione sempre più cospicua di tali tecnologie.

Infatti, una volta riusciti ad ottenere questi tipi di nanorobot biocompatibili con l’organismo umano e animale e capaci di trasportare un farmaco attraverso il corpo, il passo successivo è stato quello di renderli capaci di rilasciare il farmaco al momento giusto e nel posto giusto. Risolvere il problema del “quando”, del “come”, e del “dove” rilasciare il farmaco, si è rivelata essere un’impresa tutt’altro che semplice, ma che, dopo qualche anno di tentativi e con l’integrazione di altri materiali, è poi riuscita.

La soluzione al rilascio temporizzato del farmaco trasportato (difficoltà che contemplava non solo il “quando” ma anche il “come fare” ad ottenerlo) è stata trovata nel 2017, quando un team di ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Tecnology) di Boston è riuscito, tramite una innovativa stampante 3D che utilizza un polimero biocompatibile e biodegradabile, il Plga (precedentemente approvato dalla Food and Drug Amministration per l’uso in molti dispositivi terapeutici), ad ottenere speciali micro particelle capaci di rilasciare nel corpo del paziente, farmaci o vaccini anche molto tempo dopo aver ricevuto l’iniezione. Nella sostanza, con una sola iniezione i ricercatori statunitensi sono stati in grado di immettere nel corpo dei soggetti oggetto della sperimentazione, più dosi di uno stesso farmaco (o di un vaccino) che sono poi state rilasciate nell’organismo ospite ad intervalli programmati.

Intervistato dalla rivista Science, l’autore Robert Langer aveva affermato: “Siamo molto entusiasti del nostro lavoro perché, per la prima volta, abbiamo creato piccole particelle che possono essere programmate per rilasciare il farmaco in un momento preciso, in modo tale che le persone possano ricevere una singola iniezione”.

Le microparticelle messe appunto dai ricercatori del MIT, assomigliano a piccole tazzine di caffè, che vengono riempite con un farmaco o un vaccino e successivamente sigillate con un coperchio del polimero Plga. La particolarità di questo polimero è che può essere progettato per biodegradarsi in tempi specifici. Così facendo, hanno realizzato microparticelle che rilasciano il proprio contenuto in tempi diversi. La velocità del degrado del polimero determina il tempo di rilascio del farmaco, ed è direttamente correlato al numero delle molecole di cui è costituito. Semplificando, tanto più la micro particella ha le pareti spesse, tanto più tempo passerà prima che queste vengano degradate al punto da liberare il farmaco in esse contenuto, o se preferite, per parlare in termini più scientifici, il peso molecolare del polimero determina quanto velocemente le particelle si devono degradare dopo l'iniezione, per rilasciare il loro contenuto.

In un periodo in cui il tema delle vaccinazione è trattato quasi ossessivamente e quotidianamente, le parole pronunciate Science da Rober Langer, nell’ormai lontano 2017 risuonano più attuali che mai. “Potrebbe in futuro essere una soluzione per chi non si è vaccinato e vuole ricevere tutti i vaccini in un colpo solo”, aveva precisato l'autore. Infatti, dagli esperimenti condotti allora soltanto sui topi, il team di ricercatori aveva verificato che effettivamente le microparticelle erano state in grado di rilasciare i farmaci a 9, 20 e 41 giorni dopo l’inoculazione, senza alcuna perdita. Inoltre, nello studio all’ora pubblicato erano state progettate microparticelle in grado di degradarsi centinaia di giorni dopo l’iniezione. “Queste nuove particelle – aveva concluso l'autore - potrebbero essere utili anche per l'erogazione di farmaci che devono essere somministrati regolarmente, come quelli per le allergie, e ridurre quindi al minimo il numero di iniezioni”.

Nel frattempo, mentre i ricercatori del MIT risolvevano il problema del “quando” e del “come”, in altre parti del mondo si studiavano sistemi per accertarsi che i farmaci fossero rilasciati nel posto giusto. Per poterlo fare, ai nanorobot si è cominciato ad aggiungere particelle magnetiche.

Studi effettuati in tutto il mondo fino al 2018, avevano infatti dimostrato che meno dell'1% delle nanoparticelle progettate per essere iniettate nell'organismo in modo da somministrare farmaci, riusciva effettivamente a raggiungere l'organo da curare. Secondo i microbiologi, questo apriva un enorme dilemma sulla reale efficacia di tale tecnologia. Avremmo avuto bisogno di iniettare dosi massicce di particelle (che contengo sovente una certa quantità di nanoparticelle magnetiche) per accumulare una dose efficace di farmaco nel tessuto da trattare. Al contempo e di contro, quasi il 99% delle particelle iniettate rimanevano libere di navigare nel corpo umano ed esercitare effetti tossici sui tessuti sani.

Così, nel settembre dello stesso anno, la rivista del Advanced Science ha pubblicato i risultati di una ricerca dell'Istituto di BioRobotica della Scuola Sant'Anna di Pisa, in cui si è presentata la prima soluzione a questo problema. È stato progettato il primo controllore del traffico all'interno del corpo umano, per difenderlo dai dispositivi, sempre più numerosi, capaci di viaggiare nel sangue per somministrare farmaci nelle cellule malate, come quelle tumorali. I ricercatori italiani hanno quindi progettato un microdispositivo capace di catturare le micronavette disperse nell'organismo. "Il dispositivo - aveva spiegato Veronica Iacovacci autrice dello studio - è formato da 27 magneti di soli 3,6 millimetri di diametro ed è in grado di scandagliare il corpo del paziente e recuperare nanoparticelle magnetiche con efficienze fino al 94%".

Il problema del “traffico”, sebbene risolto, aveva però messo in risalto un altro aspetto assolutamente da perfezionare, pena l’inefficacia di questa biotecnologia, quello già accennato di riuscire a “guidare” o far raggiungere in tempo utile e con precisione, l’area del corpo dove rilasciare il farmaco trasportato.

La prima soluzione trovata, è stata quella di aggiungere alla struttura dei nano robot, sostanze diverse, come ad esempio il titanato di bario (di cui ho già parlato nel mio articolo apparso sul numero 555 del bimestre Maggio Giugno 2021 di questa rivista - IL GIORNALE DEI MISTERI) per poi virare su quello che, da meno di un decennio, è diventato il materiale di elezione nella realizzazione dei nano materiali, e quindi anche dei nano robot biologici: il grafene.

Nel maggio del 2019, la rivista Nano Letters ha pubblicato uno studio condotto dalla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (Sissa) di Trieste, condotto in collaborazione con le università di Trieste, Manchester e Strasburgo nell'ambito dell'iniziativa europea Graphene Flagship, nel quale si rimarcavano le peculiari capacità del grafene, di interferire con la trasmissione del segnale dei neuroni al fine di sviluppare cure per la malattie neurologiche come l’epilessia. A margine di questa ricerca, gli scienziati del Sissa di Trieste guidati da Laura Ballerini, aveva affermato “L'interesse della procedura sta anche nel fatto che i le microparticelle di grafene son ben tollerate dall'organismo: questo potrebbe dare impulso a nuove ricerche volte a indagarne l'impiego come 'navicelle' per il trasporto mirato di farmaci …”.

Tuttavia, sebbene il grafene sia oggi largamente il materiale più utilizzato, anche per la sua economicità rispetto ad altri, nella realizzazione delle nano  e bio tecnologie, non è il solo. Anche il ben più costoso, ma altrettanto efficace (per le sue capacità conduttive) oro è stato utilizzato per la creazione di nano robot. Grafene e oro quindi, sono oggi impiegati, sebbene in misura diversa e non esclusiva, nei nanorobot proprio perché la loro risposta magnetica consente di monitorarne dall’esterno la posizione e, quando necessario, “guidarne” la rotta verso gli obbiettivi stabiliti e nei tempi utili, prima del rilascio del farmaco.

Potrebbe sembrare semplice guidare un singolo micro o nanorobot all’interno di un organismo ma, la quantità di farmaco trasportato è quasi insignificante a fini terapeutici. Per ottenere una reale efficacia di questa biotecnologia, sono necessari sciami di centinaia o migliaia di nano robot da immettere simultaneamente in un organismo, e dunque la cosa cambia. È sorta perciò la necessità di trovare un sistema che consentisse ai nano robot di muoversi simultaneamente, autonomamente per dirigersi verso la destinazione voluta.

Nel marzo 2021, sulla rivista Science Robotics  è stato pubblicato il risultato di uno studio condotto dal gruppo dell’Istituto spagnolo di bioingegneria della Catalogna, coordinato da Samuel Sánchez, in collaborazione con l’Università autonoma di Barcellona. I ricercatori spagnoli hanno osservato per la prima volta il movimento collettivo di uno sciame di nanorobot nell’organismo di un topo vivo.

I nanorobot oggetto dello studio, si sono mossi autonomamente all’interno della vescica dei topi, utilizzando come combustibile l’urea presente nell’urina. Per farlo, i team di ricerca hanno dotato di nano motori, costituiti di nanoparticelle di silice mesoporose contenenti enzimi ureasi e nanoparticelle d'oro, i nano robot, per poi confrontarli con i medesimi nano robot non muniti però di nanomotori. Per monitorare i loro spostamenti, i ricercatori hanno utilizzato tecniche di microscopia e la Pet (tomografia a emissione di positroni), strumento diagnostico utilizzato comunemente in medicina. Le osservazioni hanno mostrato che la distribuzione dei nanorobot dotati di nano motori, a differenza di quelli che non lo avevano, era omogenea, una prova che il movimento collettivo era coordinato ed efficiente.

Questi nanorobot – aveva spiegato Sánchez - mostrano movimenti collettivi simili a quelli che si possono osservare in natura, come gli uccelli che volano in stormi o gli schemi ordinati seguiti dai banchi di pesci. Comprendere il comportamento collettivo di questi nanorobot – aveva concluso - è essenziale per fare passi avanti verso il loro impiego nella pratica clinica”. Tutto questo ha risolto in buona parte il problema dell’indirizzare compiutamente il movimento dei nano robot verso le zone dell’organismo che si vuole rendere soggette al trattamento medico, tuttavia con una importante limitazione. Le membrane di alcuni tessuti corporei, ostacola il passaggio di questi nanorobot, rischiando di rendere inefficace la terapia.

Nel 2021, l'Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa ha quindi annunciato l’inizio di un progetto di ricerca, con l’obiettivo di creare i primi microrobot “mutaforma” capaci di muoversi in maniera autonoma nel corpo umano per eseguire procedure mediche non invasive. Questo all’interno del progetto di ricerca Celloids, finanziato dal Consiglio europeo della ricerca (Erc) con 1,5 milioni di euro in cinque anni e coordinato da Stefano Palagi. L'Istituto di BioRobotica della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa sta quindi sviluppando dei microrobot più piccoli di un millimetro in grado di modificare continuamente la loro forma per infilarsi nei minuscoli interstizi presenti nei tessuti biologici. "La caratteristica innovativa di questi microrobot – aveva spiegato Palagi - è la capacità di modificare autonomamente la propria forma e di adattarsi all'ambiente circostante. Muoversi e orientarsi in autonomia dentro il corpo umano apre la strada a procedure mediche rivoluzionarie, come il monitoraggio continuativo dall'interno del corpo per scopi diagnostici o interventi non invasivi in organi molto delicati”.

 A fronte delle indubbie potenzialità e utilità di queste biotecnologie a scopo terapeutico, come mi è ormai consueto, non posso che richiamare l’attenzione sui possibili utilizzi impropri e distorti delle stesse, che non è troppo difficile da immaginare. Non è un caso infatti, che di queste biotecnologie, ritenute erroneamente da molti, come qui dimostrato, solo fantascienza, si sente sempre più frequentemente parlare all’interno di talune tesi alternative alla narrazione ufficiale.

A prescindere dal fatto che ciascuno è chiamato a verificare personalmente la veridicità o meno di talune versioni della realtà, facendo ricorso alla propria conoscenza e, se limitata, ampliandola e approfondendola, e non più semplicemente limitandosi a credere a una o l’altra versione dei fatti, su una cosa dovremmo essere tutti d’accordo: dovremmo pretendere che non sia la scienza applicata senza remore e senza limiti a guidare lo sviluppo etico, morale e sociale della popolazione umana, ma che sia invece la politica (quella vera, intesa come reale espressione della sovranità popolare protesa alla realizzazione delle scelte opportune fatte per soddisfare le necessità della popolazione, esclusivamente nel rispetto dei diritti umani fondamentali e democratici) a guidare la scienza, mettendo tempestivamente e opportunamente dei limiti allo sviluppo e/o all’utilizzo di certe tecnologie.

La scienza senza etica e senza una morale umana non è più vera scienza ma, come la storia insegna, rischia di diventare solo aberrazione scientifica.

Stefano Nasetti

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Fonti