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La scienza è malata, a quasi nessuno interessa, in pochi se ne accorgono ma a molti fa comodo.

(Questo articolo è stato inserito e ampliato nel libro Fact Cheking - la realtà dei fatti la forza delle idee)

Negli ultimi anni si è assistito a un calo continuo e inesorabile della credibilità della scienza agli occhi dell’opinione pubblica. Quest’ultima infatti, ha preso progressivamente coscienza delle innumerevoli incongruenze di molte spiegazioni scientifiche, divulgate all’opinione pubblica da decenni come conoscenze oggettive e verità incontrovertibili, sebbene fossero soltanto teorie. Se è vero che tali teorie fossero. Al momento della formulazione, in qualche modo ragionevolmente fondate, se consideriamo le conoscenze dell’epoca, è anche vero che il divulgarle come certezza, poiché opinioni condivise dalla maggioranza degli aderenti alla comunità scientifica, si è rivelato un errore marchiano, sia in termini di comunicazione, sia sotto l’aspetto squisitamente più scientifico e oggettivo.

Come ricordava Galileo Galilei oltre cinquecento anni or sono, “le verità scientifiche non si decidono a maggioranza.”

Se quest’atteggiamento, che possiamo definire di presunzione o supponenza da parte di molti (non tutti) i membri della comunità scientifica, è di fatto riscontrabile in ogni epoca, almeno negli ultimi 200 anni, il conservativismo e l’ostruzionismo nei confronti di nuove evidenze scientifiche che ne è sempre scaturito, è emerso ormai fragoroso in tutta la sua evidenza.

La velocità con cui la conoscenza scientifica è aumentata negli ultimi decenni, non ha più consentito agli aderenti alla comunità scientifica ufficiale, di “gestire” la transizione tra le vecchie conoscenze ormai obsolete, e le nuove scoperte. In passato la minor velocità con cui la scienza acquisiva nuova conoscenza, aveva infatti permesso di “anestetizzare”, complice anche la minor cultura media e la bassa velocità di diffusione delle informazioni, le possibili reazioni avverse del pubblico. Quest’ultimo era dunque impossibilitato di comprendere a pieno i mutamenti radicali riguardo determinati assunti scientifici ufficiali, rivelatesi palesemente errati e fuorvianti. In tale contesto, la scienza (o per meglio dire chi la gestisce e la rappresenta) è sempre riuscita a mantenere quell’aura di autorevolezza e prestigio forse immeritato che, giustamente va riconosciuta a chi fa scienza in modo serio.

Oggi, di fronte ad uno scenario completamente mutato, la spesso supponente e presuntuosa scienza ufficiale è stata messa spalle al muro. Molti membri della stessa hanno perciò iniziato a studiare i problemi che esistono all’interno della comunità scientifica ufficiale e nella scienza, più in generale.

L’immagine della scienza presentata agli occhi dell’opinione pubblica, è spesso stata quella di un gruppo di persone eticamente corrette, scevre da ogni condizionamento economico e/o politico, che anteponevano il benessere, la conoscenza e il miglioramento delle condizioni umane ai propri interessi personali, alle loro mire di ricoprire incarichi di prestigio e potere, alla loro ambizione di acquisire popolarità oltre che di aumento delle proprie possibilità economiche e del proprio tenore di vita.

Assistiamo ancora, soprattutto nel nostro paese, al tentativo di presentare il mondo scientifico come un mondo idilliaco, in cui sono quasi del tutto assenti le dispute e le rivalità tra colleghi, in cui esiste un mutuo e reciproco spirito collaborativo, in cui ciascun ricercatore e scienziato, indipendentemente dalla posizione gerarchica che ricopre nell’ambito della comunità scientifica, ha come unico e solo scopo della sua vita, la conoscenza e il progresso dell’essere umano. Si tratta di un tentativo sempre meno efficace, che riesce nel suo intento solo in quella fetta di popolazione ancora poco interessata e partecipe alla conoscenza scientifica, oltre che ossequiosa delle “autorità”.

L’astronomo Carl Sagan diceva: “Abbiamo costruito un mondo basato su scienza e tecnologia, in cui nessuno capisce nulla di scienza e tecnologia”.

Non tutti ne sono consapevoli ma, il ritenere che il settore scientifico sia un sistema a se stante, completamente avulso da quelle che sono le logiche economiche, di profitto, di competizione senza esclusione di colpi, di corsa al conseguimento di posizioni di potere, di fama, un mondo senza uno spiccato individualismo ed egocentrismo, logiche di cui ogni settore della nostra vita è ormai profondamente intriso, rimane un pensiero tanto ingenuo quanto anacronistico.

La scienza è malata, e questo è ormai un dato di fatto. I mali non sono legati alla scienza in sé, ma agli uomini che la gestiscono e che vi operano, schiavi di quelle logiche proprie del nostro tempo.

La presa di coscienza di questo problema, all’interno della comunità scientifica, ha spinto alcuni ricercatori a cercare di comprenderne meglio le cause e la portata delle conseguenze che l’atteggiamento di chiusura e conservativismo conclamato in taluni ambiti scientifici, ha avuto agli occhi dell’opinione pubblica.

Sebbene non se ne parli diffusamente nel nostro paese, nell’ultimo anno sono stati pubblicati molti studi scientifici che hanno voluto verificare innanzitutto, la reale esistenza di certi problemi che, sebbene percepiti e percepibili anche da parte di chi di scienza s’interessa, pur non facendo parte della comunità scientifica, erano sempre rimasti delle sensazioni o delle idee intangibili.

Nei precedenti articoli (La scienza ha un problema di fake news, La scienza avanza un funerale alla volta? Le superstar della scienza ostacolano il progresso scientifico?) che ho pubblicato in questo blog, ho cercato nel mio piccolo, di dare spazio a queste ricerche, per dare evidenza dei problemi che interessano il settore scientifico, e per provare a diffondere un po’ di consapevolezza a riguardo. Inutile dire che suggerisco la lettura attenta di entrambi se si vuol provare a comprendere la portata del problema e le dannose conseguenze che ricadono sulle vite di tutti i cittadini.

Oltre a quanto già detto in tali articoli, presento oggi altre due ricerche scientifiche (entrambe pubblicate nelle scorse settimane sulla rivista e sul portale Science) che danno modo di far emergere altri due aspetti interessanti. Ciò che viene fuori, getta altre ombre sul mondo scientifico e sulle conseguenze che le errate o imprecise affermazioni scientifiche comportano nella vita di tutti i giorni.

In particolare, la prima ricerca si è concentrata sugli studi scientifici pubblicati in ambito medico. Lo studio è stato realizzato da un gruppo di ricerca guidato da Ben Goldacre, autore e medico presso l'Università di Oxford nel Regno Unito, sostenitore della trasparenza nella ricerca sulle droghe.

L’obiettivo dei ricercatori di Oxford, era capire le conseguenze di una sempre più diffusa cattiva abitudine, presente nel modus operandi di molti ricercatori. È infatti un problema ben noto, soprattutto nelle sperimentazioni cliniche, che i ricercatori iniziano le loro ricerche dichiarando che intendono verificare, e quindi ottenere, un risultato particolare, ad esempio le conseguenze e/o l’efficacia di un farmaco per attacchi di cuore. Poi però, nel corso della ricerca, cambiano totalmente obiettivi e cercano cose diverse da quelle dichiarate, cose che poi segnalano quando pubblicano i risultati. È stato più volte riscontrato che tale ondivaga pratica, può far sembrare un farmaco o un trattamento più sicuro o più efficace di quanto non sia in realtà.

In sostanza, magari si mette in pratica una sperimentazione con il dichiarato obiettivo di verificare l’efficacia (o i possibili effetti collaterali) di un farmaco per il cuore, ma poi quando si pubblica lo studio, si omette del tutto di rispondere al quesito principale della ricerca, concentrandosi magari sul fatto che il farmaco può produrre reazioni allergiche a livello meramente epidermico. Lo studio scientifico così redatto, farà apparire il farmaco più sicuro ed efficace di quello che in realtà potrebbe essere (non è possibile dai dati pubblicati, sapere se è realmente efficace o inutile, o se addirittura è più dannoso che utile).

Il processo peer-review a cui le riviste scientifiche dicono di sottoporre tutti gli studi prima della pubblicazione, dovrebbe essere un efficace deterrente per scoraggiare la realizzazione di questo tipo di studi, o quantomeno un mezzo efficace per impedirne la pubblicazione.

Nel tentativo di capire se almeno le riviste scientifiche più importanti, rispettano il loro impegno a garantire che i risultati siano riportati correttamente, i ricercatori di Oxford con la loro ricerca, hanno dato evidenza incontrovertibile che spesso ciò non accade. Hanno scoperto che molti degli attori dell’intero processo di ricerca e divulgazione scientifica, si piegano alle altre logiche economiche e commerciali e oltretutto, messi di fronte al fatto compiuto, avanzano le scuse più disparate.

A partire dal 2015, i ricercatori di Oxford hanno dato vita al progetto del Centro per il Progetto di Monitoraggio dei risultati della medicina basato sull'evidenza (COMPARE). Hanno quindi cominciato a esaminare tutti gli studi pubblicati, su cinque principali e autorevoli riviste mediche: Annals of Internal Medicine, The BMJ, JAMA, The Lancet e The New England Journal of Medicina (NEJM). Gli argomenti degli studi pubblicati spaziavano dagli effetti sulla salute del consumo di alcolici per i diabetici, al confronto tra farmaci per il cancro del rene. Tutte e cinque le riviste esaminate, avevano preventivamente approvato linee guida per la pubblicazione dei dati consolidati degli studi sperimentali (CONSORT). Una regola CONSORT è che gli autori dovrebbero descrivere i risultati che intendono studiare prima dell'inizio di una sperimentazione, per poi attenersi tassativamente a tal elenco quando pubblicano i risultati.

Con enorme stupore, i ricercatori di Oxford hanno costatato che solo nove dei 67 studi pubblicati nelle cinque riviste, hanno riportato risultati giusti.  Il team di Oxford del progetto COMPARE, con la pubblicazione dello scorso 14 febbraio 2019 sulla rivista Trials, ha riferito che circa un quarto (il 25%) degli studi pubblicati, non ha riportato correttamente l'esito primario che aveva dichiarato di voler misurare, mentre addirittura il 45% non ha neanche riportato correttamente tutti i risultati secondari. Non solo, in alcuni casi negli studi sono stato pubblicati perfino nuovi risultati, che non erano oggetto della ricerca. (Si tratta ovviamente di risultati medi che variano da rivista a rivista. Ad esempio solo il 44% delle sperimentazioni su: Annals of Internal Medicine riportava correttamente l'esito primario, rispetto al 96% degli studi NEJM.

Quando il team del progetto COMPARE ha scritto alle riviste facendo presente i problemi riscontrati sui documenti degli studi pubblicati, le riviste hanno pubblicato soltanto 23 delle 58 lettere inviate dal team COMPARE, preferendo quindi nella maggioranza dei casi (35 su 58) non dare pubblica evidenza (e quindi censurare) dei problemi rilevati.

Anche in questo caso, gli atteggiamenti tenuti dalle varie riviste sono stati eterogenei.  Mentre infatti le riviste Annals of Internal Medicine e The BMJ hanno pubblicato tutte le lettere a loro indirizzate, The Lancet ha accettato solo l'80% di quanto ricevuto, mentre NEJM e JAMA le hanno respinte tutte.

I redattori di NEJM hanno spiegato che sono soltanto i loro referenti che operano le peer-review a decidere quali risultati degli studi devono essere segnalati, specificando che, mentre alcune delle regole CONSORT sono oggettivamente "utili" nelle operazioni di valutazione di uno studio scientifico, gli autori degli studi non sono tenuti a rispettare. Ciò dovrebbe comportare tuttavia, il rifiuto di quella rivista di pubblicare lo studio scientifico, poiché quella rivista si era impegnata formalmente a verificare il rispetto di tali norme. Poiché la rivista, consapevole che gli autori non hanno rispettato le procedure, decide comunque di pubblicare lo studio, da evidenza di piegarsi a logiche presumibilmente di tipo economico-commerciali, anteponendo alla qualità e l’oggettività di uno studio scientifico, i propri interessi privati.

Alcune riviste o alcuni autori, che hanno risposto alle lettere del team COMPARE, hanno sostenuto che il progetto COMPARE è “al di fuori della comunità scientifica” (benché non sia vero) e dunque hanno deciso di non rispettato le indicazioni (prima sottoscritte e accettare). Altri hanno spazzato via le critiche, brontolando su quanto fosse difficile il loro lavoro. Altri ancora hanno negato addirittura di aver omesso qualsiasi risultato.

Da altre risposte ricevute dal team COMPARE, emerge che altri redattori delle riviste non sembravano preoccuparsi che i ricercatori potessero aver cambiato i risultati, se erano essi stessi a rivelare il cambiamento prima della pubblicazione. Addirittura le riviste JAMA e NEJM hanno dichiarato di non avere sempre sufficiente spazio per pubblicare tutti i risultati degli studi e che quindi, sovente, li pubblicano solo parzialmente.  

La discrezionalità assolutamente personale con cui i redattori omettono alcuni risultati anziché altri, altera certamente la percezione, in positivo o in negativo, di quella ricerca, anche se questa sia stata svolta correttamente. Se di una ricerca che mira a misurare l’efficacia e gli effetti collaterali di un farmaco, vengono poi pubblicati i risultati in modo parziale, pubblicando i benefici del farmaco ma omettendone i danni provocati, va da sé che il farmaco possa risultare più utile di quello che in realtà è.

La domanda che tutti dovrebbero porsi a questo punto è: a chi giova tutto questo?

La risposta la si può trovare già in quanto scritto nell’articolo La scienza ha un problema di fake news. La pubblicazione di uno studio, spesso finanziato da case farmaceutiche, anche se poi viene ritirato, finisce per essere utilizzato e citato come prova dell’efficacia o della non dannosità di un farmaco (come ad esempio un vaccino), che poi un’azienda farmaceutica (magari la stessa che ha finanziato la ricerca o la sua pubblicazione sulle cosiddette riviste predatorie) produrrà e commercializzerà.

Tuttavia i numeri della “cattiva scienza” sono stati resi pubblici alcuni mesi fa (settembre 2018) da Retraction Watch.

Retraction Watch è un progetto dei giornalisti scientifici Ivan Oransky e Adam Marcus che, con l’aiuto di Science, ha aperto i battenti ufficialmente nell’agosto del 2010. Un periodo in cui iniziava a diventare evidente un nuovo trend, quello del numero crescente di ritiridi articoli da parte d’importanti riviste scientifiche. Un fenomeno preoccupante ma difficile da mappare, perché, specie all’epoca, le riviste tendevano a non dare troppa visibilità al ritiro di un articolo.

Per questo i due giornalisti scientifici hanno iniziato a seguire la faccenda da vicino, decisi a comprendere le caratteristiche, le dimensioni e le cause di quest’anomala frequenza di studi ritirati. In quasi otto anni di lavoro hanno raccolto una lista di oltre 18mila paper ritirati. Ora hanno deciso di ha rendere pubblico il più ambio database mai realizzato di paper scientifici ritirati dagli anni Settanta a oggi (database esplorabile gratuitamente).

Ogni settore della scienza è, di fatto, contagiato da questa epidemia di studi ritirati. Medicina, fisica, biologia, psicologia fra tutti gli altri (nessuno escluso) i settori certamente più colpiti e quelli in cui le conseguenze di questo mal vezzo, hanno ripercussioni più gravi sulla nostra vita di tutti i giorni.

Nessun campo della scienza sembra immune a errori, sviste e persino vere e proprie truffe, che si concretizzano nel ritiro degli studi scientifici in questione da parte delle riviste. Questo è almeno ciò che avviene quando gli errori vengono allo scoperto, e gli editori decidono di correre ai ripari. Ma è legittimo domandarsi a questo punto, anche quanti studi errati ci siano che non sono stati scoperti e vengono tuttora considerati affidabili.

Il fenomeno del ritiro di uno studio scientifico è un fenomeno che da almeno una decina d’anni si è fatto sempre più comune, sollevando dubbi, legittimi, sullo stato di salute e di credibilità della scienza. I tanti ritiri sono certamente frutto di un’attenzione crescente per la correttezza dei dati pubblicati come già accennato nella premessa di quest’articolo, ma anche conseguenza della “legge non scritta” del publish or perish (letteralmente pubblica o muori), che obbliga i ricercatori a pubblicare risultati deboli, se non completamente inventati, per stare al passo, mantenere o acquisire prestigio, potere, finanziamenti e lavoro.

Dai dati resi pubblici da Retraction Watch, tra il 2000 e il 2014 si è passati da meno di 100 articoli ritirati all’anno a oltre mille, ma nonostante tutto oggi il problema investe non più di quattro articoli pubblicati ogni 10mila. E se è vero che la percentuale dei ritiri è più che raddoppiata tra il 2003 e il 2009, è ormai stabile da anni, e si può spiegare in parte con il concomitante aumento degli articoli pubblicati ogni anno: più che raddoppiati tra il 2003 e il 2016.

Parallelamente, il numero di riviste che ritirano almeno un articolo l’anno è aumentato. Nel 1997 erano soltanto 44, mentre nel 2016 sono state 488. Il numero di articoli ritirati in media da ciascun giornale però è rimasto pressoché invariato. Fatto che porta a pensare che l’aumento degli articoli ritirati negli ultimi 10 anni non sia legato principalmente a una linea di principio etico a cui le riviste s’ispirano, quanto piuttosto all’aumento del numero di riviste scientifiche esistenti. Le riviste quindi, non sembrano persuase a ritirare uno studio scientifico anche quando si accorgono essere errato.

Spiegare dove nasca la ritrosia, passata e presente, per una simile atteggiamento, è abbastanza semplice e in parte è già stato spiegato negli articoli precedenti. Il ritiro di uno studio scientifico è visto come una sconfitta sia per gli autori della ricerca, sia per chi avrebbe dovuto vigilare sulla correttezza dello stesso, sia per i revisori e gli editori delle riviste. Nel mondo dell’immagine in cui viviamo, il ritiro equivale spesso ad avere una piccola macchia sulla propria immagine pubblica. Questo perché la prima cosa che viene alla mente di fronte a un ritiro, è che sia dovuto a un caso di cattiva condotta scientifica o addirittura di vera e propria frode. In effetti, circa il 60% dei ritiri è esplicitamente legato a dati falsificati, immagini copiate, plagi, e altri atteggiamenti tipici delle frodi scientifiche.

Tuttavia, sebbene i motivi che spingono le riviste a ritirare un articolo scientifico non possano essere sempre ricondotti a una frode, dall’archivio della Retraction Watch emerge chiaro che il rimanente 40% dei ritiri è motivato dall’impossibilità manifesta di poter riprodurre i risultati dello studio. Ciò che potrebbe sembrare a occhi inesperti un semplice disguido burocratico, sottintende in realtà una cosa forse ancor più grave della falsificazione o di una frode.

L’attendibilità di uno studio scientifico, e dunque della scienza stessa, si fonda sulla possibilità di ottenere gli stessi risultati di un esperimento a parità di condizioni. Si basa quindi sulla ripetibilità, poiché questa evidenzia una costante oggettiva, sulla quale è ricavata la conseguente legge o verità scientifica. Se, una volta tolti gli studi falsi, il restante 40% dei ritiri avviene per mancanza di oggettività, significa che una fetta cospicua di ciò che viene pubblicato (e poi ritirato quando ci si accorge dell’errore) è costituito da vere e proprie fake news scientifiche. Per non parlare del fatto che negli ultimi anni si è diffusa l’abitudine di non ritirare articoli (evitando così di “compromettere” l’immagine e la reputazione dell’autore e della rivista) che presentano errori in buona fede, ma piuttosto diramare un avviso di “correzione”, da cui è difficile comprendere quanti e quali problemi avesse originariamente l’articolo.

Emerge dunque da questi studi un altro problema che affligge la scienza da cui guardarsi. Quel sistema di potere, d’interessi e di collusione tra alcuni scienziati e le riviste, sembrerebbe dunque tendere a “occultare” o sminuire il problema degli studi fake.

Quelli desunti dall’archivio della Retraction Watch, sono certamente di dati parziali che da soli non sono sufficienti a definire con precisione lo stato di salute della scienza, ma offrono, se combinati con gli altri studi esposti negli articoli precedenti, un quadro della situazione abbastanza esplicativo riguardo ai motivi che hanno portato a questa perdita di credibilità della scienza presso l’opinione pubblica.

L’origine del problema dunque, non sembra essere quella legata alla cattiva comunicazione scientifica, ai problemi connessi al mondo dell’editoria che opera in questo settore, quanto piuttosto alla sempre più frequente mancanza di oggettività di molti studi pubblicati, che in realtà di scientifico sembrano avere poco o nulla.

Solo per citare alcuni numeri desunti dal database in questione, la virtuale classifica degli editori che hanno ritirato più articoli scientifici, è guidata dall’Institute of Electrical and Electronics Engineers, con i suoi 7.300 articoli ritirati, che da soli rappresentano il 40% dell’intero archivio. Sebbene in questo caso si tratti solo di abstract che si riferiscono a conferenze tenutesi per lo più tra il 2009 e il 2011, parliamo pur sempre di testi pubblicati (teoricamente ma non effettivamente) dopo accurato processo peer-review, che hanno quindi avuto bisogno di una smentita ufficiale.

La virtuale classifica degli autori con più studi ritirati è costituita complessivamente da circa 30mila autori. Anche qui ce ne sono alcuni rivelatesi sistematicamente meno seri affidabili di altri. Infatti, i primi 20 hanno tutti almeno una trentina di paper ritirati a testa, i primi cento più di 13, e i primi 500 più di cinque. Andando nel dettaglio a guardare poi la top ten, troviamo campioni delle fake news scientifiche. Al primo posto spicca il nome di Yoshitaka Fujii, anestesista giapponese che dal 2012 ha collezionato bel 169 paper ritirati a causa di frodi e falsificazioni dei dati. Il secondo classificato, Joachim Boldt, anche lui anestesista, lo segue a debita distanza con un altrettanto considerevole ed eloquente numero di articoli scientifici ritirati, ben 96!

Ma com’è possibile una tale mole di articoli fake?

La risposta proviene questa volta da un altro studio, quello compiuto da John Ioannidis, uno statistico della Stanford University di Palo Alto, in California, si chiesto se alcuni membri della comunità scientifica stessero giocando con il “sistema scientifico”, forzando oltremodo il principio del publish or perish. Così lui e i suoi colleghi si sono immersi nel database della rivista accademica Scopus e hanno identificato 265 "autori iperprolifici" tra il 2000 e il 2016. Il gruppo di Ioannidis è stato in grado di contattare 81 di questi scienziati, per chiedere loro l’origine e finalità di tale super prolificità. Ioannidis ha poi presentato i risultati del suo studio su Nature per poi rilasciare anche un’intervista su Science.

Da ciò è emersa la conferma che la maggioranza degli intervistati ha dichiarato di essere così prolifico al fine di ricevere più citazioni possibili, ottenendo quindi maggiore visibilità, con lo scopo di ottenere maggiori sovvenzioni.  La Cina, ad esempio, dà soldi ai suoi ricercatori per la pubblicazione, specialmente in riviste influenti, e forse come risultato ospita anche un numero sproporzionato di autori iperprolifici. Questo denaro si è rivelato essere molte volte superiore al loro salario abituale. Dunque qui non è solo “pubblicare o perire”, ma è pubblicare e prosperare.

È dunque l’interesse individuale a spingere gli scienziati a pubblicare più articoli possibile e, essendo sostanzialmente impossibile avere una prolificità elevata mantenendo al contempo rigore, qualità e serietà delle ricerche, molti di loro finiscono per ricorrere a scorciatoie poco etiche, cambiando o aggiungendo dati a studi già compiuti, affinché da un singolo e reale studio riescano poi a “moltiplicarlo”, facendolo apparire come 5, 10 o addirittura 20 studi differenti. È ciò che spesso è stato riscontrato nel campo dell'epidemiologia, in cui gli scienziati ricercatori raccolgono una grande quantità di dati per poi distribuire le loro analisi, un foglio alla volta, consentendo a se stessi di collezionare un gran numero di pubblicazioni da un singolo progetto. In altri casi non esitano a falsificare interamente i risultati di studi precedenti se non addirittura a falsificare l’intero studio.

La pressione di pubblicare o perire o di ottenere finanziamenti amministrativi contribuisce a creare un ambiente in cui le rigorose regole vigenti in ambito scientifico, che dovrebbero garantire la ripetibilità dei risultati e quindi l’oggettività degli stessi, sono invece attenuate. Inoltre, poiché il fine è spesso quello di pubblicare il più possibile, chi rifiuterà mai di apporre il proprio nome su una ricerca, anche se è stata condotta da altri? Sì, perché accade anche questo.

È emerso infatti, che alcune discipline hanno più autori iperprolifici di altri. Circa la metà degli autori iperprolifici presenti nel database esaminato da Ioannidis, appartengono al settore della medicina e della biologia. Tenendo conto di quanto già emerso in merito alle ricerche esposte nel presente e nei precedenti articoli, certamente quest’aspetto non può essere trascurato. Le regole non scritte che governano questi campi scientifici infatti, favoriscono il proliferare di pubblicazioni attribuite a determinati scienziati. Ad esempio, quando i cardiologi diventano direttori d’importanti centri clinici e di ricerca, possono vedere aumentare anche di 10 volte il numero degli studi di cui gli è attribuita (non sempre meritatamente) la paternità. Questo perché i loro nomi vengono sempre associati a tutto ciò che il loro centro produce. È una norma che i campi di medicina e biologia hanno adottato, anche se ciò non soddisfa rigorosi standard scientifici per l’attribuzione di paternità di uno studio.

Ma perché è un grosso problema se alcuni autori estendono la definizione di paternità? Ci sono due ragioni principali per cui abbiamo la paternità: affidabilità e responsabilità. Avere un numero eccessivamente elevato di autori di uno studio, significa spesso (ma non sempre) diluire complessivamente l’affidabilità del team di ricerca, poiché equivale ad avere un sistema molto vago, eterogeneo e non standardizzato. È come un paese con 500 diversi tipi di monete e senza tasso di cambio. In termini di responsabilità, solleva anche alcuni problemi di riproducibilità e qualità. Con documenti che hanno un numero molto l’elevato di contributori, c'è qualcuno tra essi che può davvero assumersi la responsabilità che tutto si è svolto correttamente? Oppure, sanno tutti davvero cosa è successo? Se qualcosa non dovesse risultare poi corretto, chi sarebbe il responsabile? Ciò appare come un espediente atto a deresponsabilizzare i ricercatori e a diluire l’eventuale effetto negativo sulla reputazione dei ricercatori, nel caso in cui lo studio fosse poi ritirato. Come si suol dire “tutti colpevoli, nessun colpevole”.

Se è vero che il modo in cui sono condotte le ricerche in queste discipline (equipe di ricerca che coinvolge spesso un numero elevato di persone) sembra incoraggiare, o almeno favorire, l’aggiunta del proprio nome come autore della ricerca anche se il reale contributo è stato davvero esiguo e marginale, è anche vero che l’industria farmaceutica è quella che elargisce più finanziamenti per la ricerca, rispetto a ogni altra disciplina. Il palese conflitto d’interessi che spesso è presente tra chi finanzia la ricerca e chi trae beneficio dai risultati della stessa, è certamente un altro motivo che spinge gli autori a “esporsi” o a porsi in modo più indulgente nei presentare i risultati sull’efficacia o sulla non dannosità di un farmaco (di un principio farmacologico) o di una prassi terapeutica, nel momento in cui vanno a esporre i risultati della loro ricerca. Abbiamo già visto poi, che sono spesso le case farmaceutiche a finanziare le riviste per la pubblicazione di molti di questi studi. Le aziende farmaceutiche dunque, finanziano studi e ricerche e poi ne favoriscono la pubblicazione (pagando le riviste scientifiche) per poi prendere i risultati di questi studi come prova della validità di un farmaco che esse stesse producono e distribuiscono.

Il dato che emerge da tutti gli studi esposti finora sullo stato di salute della scienza, è che la maggioranza delle cosiddette fake news scientifiche non proviene da improvvisati scienziati dilettanti. Non sono frutto della cosiddetta “pseudoscienza” così come spesso viene divulgato dall’opinione pubblica. Sono invece generate da principi etici quasi del tutto assenti ormai nel campo delle scienze (così come in ogni altro settore della vita), e da un sistema contorto e poco trasparente in cui si intrecciano i diversi e distinti interessi individuali degli attori dell’intero processo scientifico (quelli dei nuovi ricercatori, quello delle superstar scientifiche e dei loro più stretti collaboratori, quello degli editori delle riviste scientifiche, quello dei redattori che lavorano nelle riviste, quello delle case farmaceutiche che finanziano direttamente o indirettamente ciascuno di essi). Ciò favorisce la “cattiva scienza”, che genera poi quella perdita di credibilità della scienza agli occhi dell’opinione pubblica.

Il complesso sistema di gestione della scienza, le dinamiche di esasperata competizione generate dal sistema stesso, gli “ammortizzatori” degli effetti negativi sulla reputazione di tutti gli attori della “filiera scientifica” quando uno studio si rivela errato e viene ritirato, tutto questo fa si che, agli occhi di uno scienziato (indipendentemente se alle prime armi o se già affermato), di una rivista scientifica e di un’azienda che finanzia certi tipi di studi, l’esame rischi/benefici riguardo l’opportunità di firmare, finanziare e pubblicare studi errati possa comunque propendere dalla parte positiva. In fin de conti, se le pubblicazioni dei risultati di uno studio, anche se sono “forzati”, parziali, omessi o addirittura inventati non impediranno a quello scienziato, a quella rivista o a quell’azienda farmaceutica di continuare a operare nel medesimo settore, anche qualora venisse a galla che si tratta di uno studio fake, mentre al contempo tutti gli attori potranno trarre individuale beneficio, perché non rischiare? La risposta vien da sé, non c’è nulla da rischiare e nulla da perdere.

Come risolvere il problema? Fare appello al senso etico dei singoli membri è utopistico nella società moderna. Dobbiamo quindi pensare a soluzioni a livello sistematico, piuttosto che a livello di singolo individuo.

Un primo passo dovrebbe certamente essere quello di cercare di rendere assolutamente chiaro e trasparente il processo di ricerca, dal suo finanziamento fino alla pubblicazione dei dati.

C’è bisogno di far sì che all’interno della comunità scientifica si raggiunga un accordo su chi ottiene meriti e finanziamenti e per cosa. Le riviste potrebbero, in teoria, provare a stabilire uno standard per le pubblicazioni (ma abbiamo anche visto che ciò è stato già fatto, salvo poi essere rinnegato dagli stessi sottoscrittori).

Si potrebbero creare sistemi che tracciano la paternità degli studi in modo più giusto e accurato. È ridicolo vedere anche 50 o 100 autori elencati come se avessero scritto tutti assieme un articolo. La maggior parte di loro ha solo contribuito con una virgola o un punto o, a volte, neanche quello. Abbiamo bisogno di un sistema che riconosca, e riconosca meglio, il vero lavoro che gli scienziati stanno facendo, e che agli stessi si faccia capo e siano attribuite anche tutte le responsabilità e le conseguenze negative, in caso in cui lo studio si riveli antiscientifico (poiché mal condotto) o inventato.  

La scienza è malata, quasi a nessuno interessa, in pochi se ne accorgono ma a molti fa comodo. Mi chiedo se tutte le forze politiche italiane e/o i singoli individui che settimane or sono hanno firmato “il patto per la scienza” sono realmente informate e consapevoli di questi problemi.

Se non ne sono a conoscenza, dovrebbero astenersi dal trattare certi temi o informarsi prima, perché, come diceva Socrate “la cosa peggiore di non sapere una cosa è presumere di saperla”. Se invece ne sono al corrente, dovrebbero proporre anzitutto delle soluzioni concrete.

La risoluzione dei problemi che affliggono la scienza, non passa certamente attraverso la gestione della comunicazione scientifica, né tanto meno attraverso la stipula di patti che mirano a diffondere l’idea che la buona scienza provenga esclusivamente dalla comunità scientifica ufficiale. Com’è emerso chiaro, incontestabile e inequivocabile nell’esposizione degli studi scientifici accademici riportati in questo e nei precedenti articoli del blog, il problema delle fake news scientifiche proviene dall’interno della comunità scientifica stessa e non da fuori.

Le cosiddette teorie scientifiche alternative, spesso etichettate tutte indistintamente come pseudoscienza, non perché se n’è valutata l’effettiva attendibilità, quanto piuttosto perché formulate al di fuori degli ambienti istituzionali, accademici e tradizionali della scienza ufficiale, non rappresentano un reale problema. Tali teorie, quelle scientificamente e razionalmente valutabili, servono invece da stimolo al mondo scientifico, poiché spesso queste teorie alternative mettono in risalto limiti e contraddizioni di certi assunti ufficiali.

Concentrare il proprio impegno sul tentativo di annichilire il pensiero divergente e azzittire le critiche, cercando al contempo di sottacere i reali problemi che la scienza ha (e che hanno causato la crisi di riproducibilità e credibilità che sta vivendo), significa soltanto voler proteggere quell’intricato sistema di potere che genera le vere fake news scientifiche e che favorisce l’interesse economico individuale e non “a sostenere la Scienza come valore universale di progresso dell'umanità, che non ha alcun colore politico, e che ha lo scopo di aumentare la conoscenza umana e migliorare la qualità di vita dei nostri simili”, come invece propagandato.

La scienza non ha e non deve avere colore politico, ma non deve neanche servire gli interessi personali di alcune superstar scientifiche e/o delle lobby economiche (soprattutto di quelle in ambito farmaceutico).

Per approfindire questo tema: clicca qui

Stefano Nasetti

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Exomars2020: su Marte in cerca dell’evoluzione!

 

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista UFO INTERNATIONAL MAGAZINE nel numero di Marzo 2021)

Nel mondo scientifico e accademico, la presenza di vita su Marte, almeno nel passato, è ormai ben più che una semplice idea o deduzione. Negli ultimi anni sono stati pubblicati numerosi studi basati sui dati raccolti dalle sonde inviate sul pianeta rosso, che hanno dato evidenza della sua presenza. Non parliamo ancora del rinvenimento di esseri viventi o dei loro resti. Tuttavia, così come i paleontologi sono certi della presenza di alcune specie animali (come i dinosauri ad esempio) in specifiche aree del nostro pianeta ancor prima di rinvenirne i resti, basando giustamente le loro certezze sulle tracce presenti nell’ambiente lasciate dal passaggio di queste specie terrestri, allo stesso modo oggi gli astrobiologi sono certi della presenza passata di vita su Marte.

Sono ormai moltissime le evidenze raccolte e, sebbene pubblicamente si faccia ancora fatica a rilasciare esplicite dichiarazioni in questo senso (per i motivi che ho spiegato già in precedenti articoli), nelle parole con cui gli stessi astrobiologi accompagnano la pubblicazione delle ricerche che provano tal evidenza, è possibile cogliere quest’assoluto convincimento.

Eccone un piccolo esempio.

Nel Settembre del 2016, un analogo studio è stato pubblicato su International Journal of Astrobiology, per opera di un team di ricerca italiano composto da Nicola Cantasano e Vincenzo Rizzo dell’Istituto per i sistemi agricoli e forestali del Mediterraneo del Consiglio nazionale delle ricerche di Cosenza (Isafom-Cnr).

I due ricercatori hanno allargato la mole dei dati analizzati, includendo in modo sistematico, tutte le fotografie delle rocce marziane scattate dai rover Opportunity, Spirit e Curiosity, rilevando analogie non solo con le strutture delle microbialiti terrestri (rocce costruite dai batteri) alle diverse scale dimensionali (microscopiche, ma soprattutto meso e macroscopiche), ma anche nelle tracce attribuibili alla produzione batterica di gas e di gelatine adesive altamente plastiche.

Rizzo, presentando i dati dello studio ha dichiarato, senza mezzi termini, che quelle raccolte, sono le prove inconfutabili della presenza passata di vita su Marte!

Queste le sue parole, apparse anche sul sito dell’ASI (Agenzia Spaziale Italiana): “L’Università di Siena ha avviato un’analisi matematica frattale multiparametrica delle coppie d’immagini, i cui risultati confermano che esse sono identiche. Un ulteriore studio morfologico del Laboratorio de Investigaciones Microbiológicas de Lagunas Andinas-LIMLA, su campioni di microbialiti viventi provenienti dal deserto di Atacama (Cile) ha permesso di evidenziare, grazie alla pigmentazione organica, che tali microstrutture e microtessiture esistono e sono un prodotto dell’attività batterica. I dati mostrano la perfetta somiglianza tra le microbialiti terrestri e le immagini marziane, con una fortissima evidenza statistica nell’analisi di 40.000 microstrutture Terra/Marte analizzate. La quantità, la varietà e la specificità dei dati raccolti – ha proseguito Rizzo - accreditano per la prima volta, in modo consistente, che le analogie non possono essere considerate semplici coincidenze”.

Ormai appurato questo, le domande a cui le prossime missioni di esplorazione marziana, a partire da quella dell’agenzia Spaziale Europea denominata Exomars 2020, o quella della Nasa chiamata Mars 2020 prevista nello stesso anno, cercheranno di dare risposta sono: per quanto tempo è esistita la vita su Marte? Si è evoluta in più forme, anche più complesse? C’è ancora? Dov’è finita?

(Brano tratto dal libro Il lato oscuro di Marte – dal Mito alla Colonizzazione)

Sono, infatti, ormai queste le domande che ci si pone in ambito scientifico ufficiale. Contrariamente a quanto ancora comunemente si pensa, è il considerare fantasia la vita marziana a essere ormai un’idea folle e antiscientifica.

Nei prossimi mesi (2020) sarà lanciata la seconda parte della missione dell’ESA (Agenzia Spaziale Europea) denominata Exomars2020. La prima parte della missione (lanciata nel 2016 e giunta sul pianeta rosso nel 2018) è stata poco fortunata.

La missione composta di due sonde, un orbiter e il lander Schiaparelli, è stata un successo solo parziale. L’orbiter ha eseguito perfettamente tutte le operazioni previste, è pienamente operativo, e sta analizzando l’atmosfera marziana. Il lander Schiaparelli invece, si è schiantato al suolo per un’apertura e un distacco troppo anticipato del suo paracadute.

Nel 2020 è in programma la seconda parte della missione europea ExoMars, con l’invio di un rover dotato di un lungo trapano di produzione italiana, che perforerà per la prima volta il suolo marziano fino a una profondità di 2 metri, alla ricerca di acqua e tracce di vita.

(Brano tratto dal libro Il lato oscuro di Marte – dal Mito alla Colonizzazione)

In questi giorni è stato annunciato il nome scelto per il rover della missione Exomars2020 che toccherà il suolo marziano nella località di Oxia Planum nel 2021. Anche in quest’occasione non sono mancati elementi a supporto dell’affermazione esposta pocanzi, riguardo all’ormai concreta certezza della vita marziana, nella mente degli addetti ai lavori.

Si chiamerà Rosalind Franklin, dal nome della grande scienziata che dato un fondamentale contributo alla scoperta della doppia elica del Dna (scoperta per la quale hanno ricevuto il premio nobel James Watson e Francis Crick nel 1962), il rover di ExoMars destinato a cercare la vita su Marte. L’ha annunciato il 7 febbraio 2019, l’Agenzia Spaziale Europea, che ha selezionato il nome tra oltre 36mila proposte inviate dai cittadini di tutti gli stati membri dell’Esa, rispondendo a un concorso lanciato a luglio dall’agenzia spaziale inglese.

La scelta di attribuire un nome così importante come quello della Franklin (cui non fu attribuito il nobel assieme a Crick e Watson soltanto perché era deceduta a causa di un tumore nel 1958 e il premio nobel non viene mai attribuito postumo), un nome così legato al concetto di vita poiché scopritrice del DNA, è già di per sé molto esplicativo della convinzione di riuscire a provare in modo definitivo, l’esistenza della vita su Marte.

Ma, se ciò non fosse sufficiente, gli addetti ai lavori hanno forse attese ancora maggiori. Almeno questa è l’impressione che traspare dalle parole rilasciate, a margine dell’annuncio del nome del rover Exomars2020, da importanti membri dell’ESA e dell’ASI (Agenzia spaziale Italiana).

Nell’articolo apparso sul portale dell’Asi, si legge”… La presenza di acqua liquida su Marte è nota da tempo agli scienziati, e la conferma definitiva è arrivata la scorsa estate con le osservazioni del radar italiano Marsis a bordo della sonda MarsExpress, che ha scoperto un lago salmastro sotterraneo nei meandri del mondo rosso. Una ragione in più per credere che l’abitabilità marziana, sia essa passata o presente, vada cercata nel sottosuolo marziano …”.

Dunque, checché se ne dica pubblicamente, e come emerge chiaro dagli innumerevoli articoli scientifici continuamente pubblicati sulle autorevoli riviste di settore, l’abitabilità di Marte non è un qualcosa che va confinato soltanto al primo mezzo miliardo di anni (circa 4 miliardi di anni fa) della vita del pianeta rosso, poiché è ormai scientificamente assodata l’abitabilità marziana anche in tempi a noi più vicini. Ciò emerge ancora una volta evidente, quando si lascia intendere, come nell’articolo sopra citato, che si pensa che Marte sia abitabile ancora oggi!

Come dicevo, le aspettative degli addetti ai lavori sono ancora maggiori. In tal senso sono illuminanti le parole del Commissario straordinario dell’ASI.

“Abbiamo appreso con soddisfazione – ha commentato Piero Benvenuti, Commissario straordinario dell’Agenzia spaziale italiana, in una videointervista rilasciata all’ASI e poi ripresa dall’Agenzia giornalistica Ansa – che il rover di ExoMars 2020 avrà il nome di Rosalind Franklin, la grande scienziata che per prima ha scoperto la doppia elica del Dna. Il rover sarà montato sulla missione ExoMars 2020, che verrà lanciata nel 2020. È una missione che ha molto di Italia a bordo: avrà un trapano che potrà perforare la superficie marziana fino a due metri di profondità e analizzare il materiale che da lì verrà estratto. Ecco il motivo per il quale è stato dato questo nome: perché cercheremo tracce di eventuale evoluzione biologica nella superficie di Marte. Stiamo quindi aspettando con grande ansia e aspettativa il successo di questa missione, veramente targata Italia”.

Con la missione Exomars2020 quindi, ci si aspetta non solo di trovare evidenze incontrovertibili di vita marziana, ma addirittura segni di una sua “eventuale evoluzione”.

Parole sorprendentemente folli, semplicemente incaute o assolutamente logiche e coerenti con le attuali conoscenze scientifiche?

La valutazione di queste parole in un senso o nell’altro, così come di ogni altro aspetto che riguarda la realtà, è direttamente proporzionale al grado di conoscenza della materia, poiché come dico spesso, il grado di comprensione della realtà è direttamente proporzionale alla conoscenza.

Chi non s’interessa di questi argomenti e vive il tutto con la superficialità propria del nostro tempo, delle logiche del “sentito dire” e del comodo “allineamento” delle proprie idee a quelle dominanti e ufficiali, sosterrà che si tratta di parole folli o, per evitare di andare contro l’autorità costituita, di parole travisate.

Per chi conosce un pochino di più l’argomento, ma non ha la libertà di pensiero di prendere pubblicamente una posizione ancora scomoda, affermerà che si tratta di parole incaute.

Per chi conosce invece in modo approfondito tutto ciò che è stato scoperto ufficialmente, con studi scientifici e accademici, negli ultimi vent’anni su Marte (magari dopo aver letto il mio libro), è capace e libero di pensare e non ha interessi da tutelare, dirà semplicemente che si tratta di dichiarazioni assolutamente logiche e normali.

“La libertà deriva dalla consapevolezza, la consapevolezza deriva dalla conoscenza, la conoscenza deriva (anche) dall'informazione, dallo studio e dalla lettura senza pregiudizi... " (Stefano Nasetti – da Il lato oscuro della Luna).

 

Stefano Nasetti

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Abitabilità e vita su Marte: nuove conferme

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista UFO INTERNATIONAL MAGAZINE nel numero di Marzo 2021)

I dati che indicano la passata abitabilità del Pianeta Rosso continuano a susseguirsi senza soluzione di continuità.

Nuovi dati raccolti dai satelliti Mars Express dell'Agenzia Spaziale Europea (Esa) e Mars Reconnaissance Orbiter (Mro) della Nasa sono stati oggetto di una ricerca coordinata dall'italiano Francesco Salese, ora nell'università olandese di Utrecht. Pubblicata sul Journal of Geophysical Research-Planets, la ricerca è stata condotta in collaborazione con il gruppo di Gian Gabriele Ori, dell'Università Gabriele D'Annunzio di Pescara.

Dati hanno fornito evidenza oggettiva e incontrovertibile della presenza di almeno 24 laghi antichissimi nell’emisfero nord di Marte, a conferma che in passato il pianeta è stato ricco di acqua ben oltre i primi 500 mila anni dalla sua formazione. Le tracce dei laghi li fanno risalire a 3,5 miliardi di anni fa, dunque secondo questi dati l’acqua è stata presente almeno per 1 miliardo di anni, cioè il doppio del tempo stimato con le tradizionali teorie (tuttora molto in voga) ormai scientificamente superate. Infatti anche in questo  studio si afferma che i laghi si sarebbero formati in seguito a fluttuazioni delle acque sotterranee durante il periodo Esperiano, cioè tra i 3.500 e 1.800 milioni di anni fa.  Si è dunque passati da 4 miliardi di anni fa a 1.800 milioni, il che fa una bella differenza considerato che altri studi evidenziano presenza di larghi specchi di acqua liquida in superficie nel periodo Amazzoniano, fino a circa 200.000 anni fa!

È interessante notare come tutti i mass media mainstram che hanno riportato la notizia, abbiano scelto di evidenziare nei titoli la datazione per eccesso (3,5 miliardi di anni) scelta certamente più “conservatrice” e rassicurante a difesa delle teorie dominanti e dello status quo, anziché quella molto più “compromettente” ma altrettanto plausibile (1,8 miliardi di anni) anch’essa contemplata dagli autori dello studio.

Tutti i 24 laghi scoperti erano profondi almeno 4.000 metri. “Altri 14 degli antichi laghi marziani conservano le tracce di delta di fiumi, molto ben conservate. Questi depositi - ha rilevato Francesco Salese all’agenzia ANSA - permettono di individuare i siti ad alta priorità per la ricerca della vita, dove prodotti organici potrebbero avere avuto un’alta probabilità di conservarsi”.

 

Secondo gli scienziati, la presenza di acqua per un lungo periodo è una condizione necessaria per l'esistenza di un'eventuale vita passata, ma da sola non sufficiente. Altre possibili spie sono i minerali, come quelli scoperti in uno dei bacini analizzati, il cratere McLaughlin: i sedimenti sul fondo di quest’antichissimo lago sono ricchi di minerali compatibili con l'ipotesi della vita, come smectiti ricche di magnesio, serpentino e minerali di ferro-idrato. Sono infatti minerali legati a reazioni che potrebbero avere a che fare con processo all'origine della vita.

I dati di questo studio vanno però considerati in un’ottica più ampia. Negli ultimi 10 anni sono stati raccolti moltissimi altri dati dalle sonde presenti sul pianeta rosso.

I dati hanno confermato la presenza di sostanze quali il ferro e lo zolfo considerate essenziali per lo sviluppo della vita, come ha rivelato la ricerca condotta dal gruppo coordinato da Susanne Schwenzer, dell'Istituto di scienze lunari e planetarie di Houston e dell’Open University, in Gran Bretagna, pubblicata sulla rivista Meteoritics & Planetary Science nell’agosto 2016. Se la presenza della combinazione ferro e zolfo è quindi stata accertata su Marte, già addirittura in un periodo risalente a circa 3,9 miliardi di anni fa, non è mai stata confermata, paradossalmente e forse incredibilmente, in un periodo così antico sulla Terra!  Nel settembre del 2017 in uno studio pubblicato sulla rivista Geophysical Research Letters, sulla base delle successive verifiche dei dati, eseguite nei laboratori statunitensi di Los Alamos, il principale autore dello studio Patrick Gasda, ha affermato che: “Trovare il boro su Marte, rende più probabile che in passato il pianeta possa aver ospitato la vita. I borati rappresentano un possibile ponte tra molecole organiche semplici e l’RNA. Senza l'RNA, non c'è la vita”. Secondo i ricercatori, le tracce di boro rinvenute su Marte risalgono a 3,8 miliardi di anni fa, un periodo analogo a quello in cui si è formata la vita anche sulla Terra. “Questo ci dice, essenzialmente, che la vita potrebbe essersi sviluppata su Marte indipendentemente da quella sulla Terra”, ha aggiunto Gasda.
Il boro marziano è stato trovato in minerali di solfato di calcio, il che significa, secondo i ricercatori, che il boro era presente nelle acque sotterranee del pianeta e che, in alcune di queste, grazie al pH neutro-alcalino e alla loro temperatura compresa tra zero e sessanta gradi centigradi, sarebbero state abitabili.  (dal libro Il Lato oscuro di Marte – Dal mito alla colonizzazione).

Altre ricerche scientifiche ufficiali, tutte basate su dati rilevati dalle sonde e non su ipotesi di fantasia, hanno confermato tra l’altro:

  • la diffusa presenza di acqua per lunghissimi periodi, fino a “soli 200.000 anni fa”;
  • l’alternanza di periodi caldi e umidi a periodi più freddi e secchi;
  • la presenza di ossigeno e metano nell’atmosfera (ancora oggi);
  • la presenza di acqua liquida (sebbene solo; stagionalmente e in modeste quantità) ancora oggi;
  • l’esistenza di un’attività geologica recente, cosa assolutamente impensabile fino a soli 5 anni fa;
  • la presumibile presenza di un campo magnetico fino a tempi recenti, quale condizione per la presenza di atmosfera e acqua liquida in superficie;
  • segni evidenti nelle rocce sedimentarie marziane di attività biologica;
  • segni in quasi tutti i meteoriti di origine marziana, di tracce fossili di microorganismi.

Tutte questi dati, tutte queste ricerche pubblicate su autorevoli e prestigiose riviste accademiche, se prese e valutate in modo organico, non solo fanno pensare che Marte sia stato adatto alla vita, ma che l’abbia ospitata addirittura prima che la vita facesse la sua comparsa sulla Terra.

Ovviamente questa conclusione che potrebbe apparire “forzata” al punto che qualcuno potrebbe chiamarla “congettura”, è un’idea che non trova unanimità di vedute in tutti gli astrofisici. Del resto, come ho evidenziato in altri articoli e nei miei libri, la scienza segue logiche differenti da quelle che comunemente le si attribuiscono. La scienza è in realtà molto più conservatrice che progressista e spesso, sintetizzando il pensiero di Marx Planck “la scienza avanza un funerale alla volta”.

Tuttavia molti sono gli scienziati che, nel loro piccolo, hanno esplicitamente dichiarato che su Marte ci sia stata vita. Molte agenzie spaziali (Nasa, Esa e Asi comprese) dando quasi per scontato (considerati tutti gli elementi sommariamente citati in precedenza) che la vita su Marte abbia fatto la sua comparsa, stanno portando avanti programmi per la ricerca di vita marziana ancora eventualmente presente.

C’è poi chi, dall’alto della sua esperienza nel campo della biologia e astrobiologia che sostiene addirittura che la vita a base di RNA e poi forse DNA, abbia probabilmente fatto la sua comparsa sul Pianeta Rosso per poi arrivare, tramite panspermia, sulla Terra.

Per potersi fare un’idea più precisa sull’intera vicenda è necessario conoscere tutte le ricerche e le scoperte che sono state pubblicate negli ultimi anni, i cui risultati sono stati qui solo sommariamente e superficialmente citati. Avere una visione d’insieme è essenziale se si vuole evitare di “pendere dalle labbra” di chi spesso si arroga il diritto di ergersi ad arbitro della conoscenza e della verità ma poi, in realtà, difende solo interessi personali.

Galileo Galilei affermava che: “In questioni di scienza, l’autorità di un migliaio di persone non vale tanto quanto l’umile ragionamento di un singolo individuo. Le verità scientifiche non si decidono a maggioranza”.

Personalmente ritengo che quando si parla di scienza o di cosa sia reale e cosa no, sia l’evidenza dei fatti a dire chi ha torto e chi ragione.

I fatti, cioè i dati raccolti e gli studi scientifici pubblicati, ci suggeriscono che quelle che solo fino a qualche anno fa erano considerate “ipotesi fantasiose”, sono probabilmente più che verosimili. Nel frattempo attendiamo la prova inequivocabile che sovverta lo status quo, l’annuncio rivoluzionario (tipo quello sull’acqua marziana fatto dalla Nasa nel settembre 2017) o, come diceva Planck e come confermato da recenti studi sull’argomento, che trionfi la nuova verità scientifica, non perché i suoi oppositori si convincono e vedono la luce, ma piuttosto perché alla fine i suoi avversari muoiono, e nasce una nuova generazione a cui i nuovi concetti diventano familiari.

 Se vuoi approfondire l’argomento e conoscere tutte le ultime scoperte su Marte  clicca qui. 

Stefano Nasetti

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La scienza avanza un funerale alla volta? Le superstar della scienza ostacolano il progresso scientifico?

Uno studio scientifico ha provato rispondere a queste domande in modo oggettivo. I risultati però hanno avuto poco eco presso i mass media mainstream, soprattutto in Italia, perché?

Esistono persone che, con le loro opinioni, sono in grado di condizionare l’opinione pubblica. Molti grandi politici e statisti del passato, molti dittatori del XX secolo, erano grandi oratori. Sapevano utilizzare le parole giuste e smuovere le masse per “indirizzarle” nella direzione voluta.

Nel secondo dopoguerra, con la nascita delle scienze che riguardano lo studio della comunicazione efficace, queste capacità sono state tradotte in vere e proprie tecniche comunicative e si sono diffuse in molti campi. Non è ovviamente sufficiente conoscere e saper applicare queste tecniche per avere successo. Immagine pubblica e professionalità sono gli altri elementi che consentono di acquisire particolari posizioni di potere.

Nel campo della comunicazione queste persone sono chiamate Opinion Leader. Nell’era del digitale, in cui gran parte della comunicazione passa attraverso la rete, sebbene con qualche differenza, queste persone sono oggi chiamate “influencer”.

Insomma, parliamo d’individui con un più o meno ampio seguito di pubblico, che hanno la capacità di influenzare i comportamenti delle persone in ragione del loro carisma e della loro autorevolezza, rispetto a determinate tematiche o aree d’interesse.

È proprio l’alto potenziale relazionale e una consolidata reputazione, derivante dall’alto grado d’interesse e conoscenza di un certo argomento, che contraddistingue l’opinion leader, che avvalora la sua autorevolezza e la fiducia da parte del suo seguito. La credibilità può derivare, oltre che dal fatto di essere considerato un esperto in un particolare settore, anche dall’esser percepito come neutrale rispetto ai portatori d’interesse che operano in quel dato settore.

Ma ciò avviene anche in campo scientifico?

Esistono scienziati che con le loro opinioni sono in grado di influenzare il progresso scientifico, indirizzandolo verso una direzione anziché altre o, addirittura, ostacolare il progresso?

Ciò è un bene o un male per l’umanità?

Per chi si occupa di scienza, anche se solo dall’esterno, ormai da vent’anni, appaiono evidenti certe anomale situazioni.

Nei miei libri e articoli, non manco mai di porre l’accento su questa problematica in ambito scientifico, in particolar modo quando si tratta di spiegare determinati aspetti riguardanti il nostro passato.

L’idea secondo cui i progressi scientifici sono il risultato di una pura competizione d’idee, una competizione in cui le intuizioni di alta qualità inevitabilmente emergono come vittoriose, è ancora considerata garanzia di un progresso lineare e libero.

La scienza, nell'immaginario collettivo, è sovente associata al progresso, all'innovazione. La storia insegna però, come quest'immagine della scienza, non corrisponda poi molto alla verità, non perché la scienza non persegua il sapere o la conoscenza, quanto piuttosto perché è gestita dagli uomini, e non tutti gli uomini hanno l'interesse ha cambiare lo stato delle cose. Quest'atteggiamento ha fatto sì che la scienza tenda a essere estremamente cauta quando si parla di nuove conoscenze o ipotesi, che possono mettere in discussione le teorie tradizionali. Tale comportamento è talmente radicato, che è possibile affermare che la scienza è molto più conservatrice che progressista. (dal libro –“Il lato oscuro di Marte – dal mito alla colonizzazione”)

Tuttavia si ritiene spesso che questa idea, sebbene non originale, sia da ritenersi più un’opinione che un dato di fatto.

Già all’inizio del XX secolo, Marx Planck, il pioniere della meccanica quantistica, affermava: "Una nuova verità scientifica non trionfa perché i suoi oppositori si convincono e vedono la luce, ma piuttosto perché alla fine i suoi avversari muoiono, e nasce una nuova generazione a cui i nuovi concetti diventano familiari “.

Neil Turok, fisico sudafricano, uno dei massimi esperti mondiali della teoria delle stringhe, che ricopre il ruolo di direttore del Perimeter Institute for Theoretical Physics in Waterloo (Ontario), ed ha ricoperto la cattedra di fisica matematica alla Cambridge University, fino al 2008, in un’intervista televisiva di qualche anno fa ha dichiarato: “Ci sono dei principi che si danno per scontato in ambito scientifico, e si fa fatica ad abbracciare nuove idee. A dire il vero in molti hanno costruito la propria carriera sullo status quo e non vogliono per questo, che nuove idee agitino le acque”. (dal libro “Il lato oscuro della Luna”)

Fino ad oggi si poteva sostenere che questa idea o sensazione, benché fosse stata manifestata e condivisa anche da scienziati importanti come quelli appena citati, fosse soltanto un’opinione. Grazie ad uno studio pubblicato su Science nel mese di settembre 2018 possiamo finalmente dire che non è assolutamente così.

Il Professor Pierre Azoulay, del dipartimento Sloan School of Management del MIT di Boston, ha voluto verificare le affermazioni di Planck secondo cui la scienza avanzerebbe “un funerale alla volta”, poiché più conservatrice che progressista.

Per cercare di fornire oggettiva risposta alle domande poste nel corso di quest’articolo, Azoulay ha compiuto diversi studi nel corso degli ultimi 10 anni.

Per farlo ha preso in considerazione tutte le pubblicazioni scientifiche nel campo delle scienze della vita (biomedicina), in un intervallo compreso tra il 1968 e il 1998. Una quantità di dati veramente enorme.

Una volta stabiliti criteri e modalità della ricerca, lo studio ha individuato 12.935 scienziati definiti, attraverso criteri oggettivi di valutazione (premi ricevuti, impatto delle ricerche nel proprio settore, numero di citazioni, ecc.) “superstar”.

Di questi ha poi individuato quelli deceduti nell’intervallo preso in considerazione, e il numero è sceso a 452 superstar. Così facendo ha potuto valutare quale impatto ha avuto la scomparsa di questi scienziati, nel campo d loro competenza.

Già con un primo studio pubblicato nel 2008, (in un documento di lavoro intitolato "Superstar Extinction", pubblicato dalla National Bureau of Economic Research) Azoulay aveva scoperto che quando gli scienziati accademici "superstar" muoiono, i loro collaboratori sperimentano un declino rilevante e permanente della produttività (numero di pubblicazioni e importanza delle stesse) nell’ordine del 5-10%. Studiando il ruolo della collaborazione nell'incrementare la creazione di nuove conoscenze scientifiche, ha scoperto che più le aree di studio dei collaboratori si sovrappongono alla superstar, più si accentua il calo della produzione.  Il calo di produzione si perpetua nel tempo, aumentando costantemente per tutto il periodo preso in considerazione (5 successivi anni dalla scomparsa della superstar).

La risultanza dei dati della ricerca è che le superstar riempiono il loro campo scientifico con le loro idee, ma quando muoiono, l'intero campo si contrae, quindi si tratta davvero delle loro idee e gli effetti della loro perdita sono piuttosto ampi e diffusi.

Molti collaboratori delle superstar deceduti sono stati intervistati. Alcuni hanno detto che la scomparsa della superstar è stata una terribile perdita per la scienza, ma altri, hanno detto invece che erano un po' stanchi di quella leadership, affermando addirittura che potrebbe esserci un lato positivo in tutto questo, perché le superstar tendono a “succhiare tutto l'ossigeno fuori dalla stanza” (vale a dire che non lasciano spazio a nuove idee se non le loro).

Nella nuova ricerca pubblicata nel 2018, i risultati sono ancor più interessanti.

I risultati dello studio di Azoulay, hanno posto in evidenza che le morti delle superstar hanno un effetto opposto (quindi positivo) sui non collaboratori.

La morte di una star è seguita da un afflusso di nuove persone nel campo in cui la superstar operava. Il flusso proviene da campi di studio correlati a quello della superstar, ma non dai campi in cui la superstar esercitava la sua influenza.

Le nuove persone che entrano direttamente nel campo lasciato parzialmente libero, portano idee diverse. Le nuove persone pubblicano molti paper, e i loro articoli ricevono molte citazioni, come a indicare che hanno avuto un impatto significativo.

I riferimenti nei documenti dei nuovi arrivati ​​sono quindi diversi, suggerendo che affrontano sì i medesimi problemi scientifici, ma da nuovi punti di vista.

È importante notare, che i risultati di cui sopra non implicano che gli studi scientifici pubblicati dai nuovi partecipanti al settore di ricerca siano necessariamente in contraddizione o rovescino l’idea scientifica prevalente.

Piuttosto, sembrano indicare la presenza di una miriade di "piccole rivoluzioni". Rivoluzioni permanenti in cui nuove idee vengono alla ribalta senza necessariamente eclissarne gli approcci precedenti.

Con sorpresa per chi pensa che in ambito scientifico trionfi sempre la qualità dell’idea e il dato oggettivo, non sono i collaboratori o i concorrenti che lavorano già in quel settore scientifico ad assumerne leadership, ma piuttosto gli scienziati di altri campi che entrano per riempire il vuoto creato dalla scomparsa della superstar.

Pertanto, coerente con le affermazioni di Planck, la perdita di un luminare offre un'opportunità per l’ingresso di nuove idee per evolvere in nuove direzioni, opportunità che fa avanzare rapidamente la frontiera scientifica.

Non si può comunque sostenere in modo assoluto che le superstar scientifiche costituiscano un netto negativo per il progresso scientifico.

Piuttosto, i risultati di questo studio suggeriscono che, una volta giunti al comando dei loro campi di ricerca, gli scienziati superstar tendono a mantenere la loro posizione di autorevolezza, e il potere che ne deriva, un po' troppo lungo.

Infatti, sempre dalla stessa ricerca, non sembra che le superstar usino la loro influenza finanziaria o editoriale, per bloccare l'ingresso di nuove idee nei loro campi, ma piuttosto la prospettiva stessa di sfidare un luminare nel campo serve come deterrente per l'ingresso da parte di estranei.

Appare più che concreta la possibilità che gli “estranei” siano semplicemente scoraggiati dalla prospettiva di sfidare un luminare sul suo campo. L'esistenza di una figura imponente può certamente far pendere la bilancia verso il negativo nel calcolo costi/benefici di proporre studi in contrasto con la teoria dominante. Ciò spinge i ricercatori esterni a ritardare la pubblicazione di certi risultati in attesa “di tempi migliori”, o li spinge a concentrarsi su attività alternative.

D’altro canto gli scienziati devono essere considerati alla stregua di ogni altro lavoratore. Giacché persone normali, non dobbiamo pensare che lo scienziato persegua il sapere, la conoscenza o il progresso ad ogni costo. Anche lui ha esigenze e aspirazioni comuni. Anche lui ambisce ad acquisire fama, prestigio e il potere che esso comporta. Anche lui ha la necessità di mantenere il suo posto di lavoro e “portare a casa” il suo stipendio. Insomma, le logiche che sottintendono la ricerca sono diverse da quelle a cui comunemente si pensa. Per ulteriori approfondimenti in merito, suggerisco la lettura del precedente articolo “ La scienza ha un problema di Fake News ”.

Tornando ai risultati dello studio di Azoulay, per quanto riguarda le superstar oggetto dello studio, queste piuttosto che concentrare i loro sforzi per ostacolare direttamente l’arrivo di potenziali “estranei” concorrenti, sembra che demandino implicitamente questo compito ai loro collaboratori (controllo indiretto).

Infatti, è vero che le superstar in carica all'interno di un campo, possono fungere “da guardiani” dei finanziamenti e dell'accesso alle pubblicazioni su un determinato giornale. Potrebbero essere in grado di allontanare efficacemente le minacce d’ingresso da parte di estranei. Nello studio però, non è stato possibile rilevare alcuna attività in tal senso. Allo stesso tempo, è implicitamente vero che i collaboratori, come capita sovente, sono i principali destinatari dei finanziamenti che arrivano in quel campo di ricerca.

Dai risultati dello studio emerge infatti, che il controllo indiretto (quello esercitato dai collaboratori) sembra quindi essere un potenziale meccanismo attraverso il quale le superstar possono esercitare un'influenza sull'evoluzione dei loro campi, anche dopo la loro morte.

I coautori degli studi della superstar, sia attraverso il loro sforzo diretto per mantenere viva la fiamma intellettuale della superstar scomparsa, sia semplicemente per la loro posizione dominante (finanziaria) sul campo, erigono barriere all'entrata in quei campi, impedendo in prima battuta, il ringiovanimento del settore con l’ingresso da parte di estranei.

Insomma, presi insieme, questi risultati suggeriscono che gli estranei sono riluttanti a sfidare l'egemonia leadership in un campo quando la stella è viva, mentre sono più propensi a correre il rischio quando questa scompare.

Concludendo, appare ormai oggettivo che le superstar della scienza condizionino, non sempre positivamente e non sempre volutamente, il progresso o, almeno, la sua linearità e la sua velocità. La loro influenza, diretta o indiretta, è spesso finalizzata al mantenimento dello status quo.

Gli autori di questo studio precisano che i risultati ottenuti nel campo da loro esaminato (biomedicina), non debbano necessariamente intendersi esemplificativi delle dinamiche presenti in tutti i settori della scienza. Alcuni settori, come quello della fisica ad esempio, in cui gli scienziati lavorano spesso individualmente o in gruppi di pochissime unità, queste dinamiche potrebbero essere differenti.

Tuttavia esistono molti altri settori (archeologia, astronomia, ecc.) in cui le dinamiche sono certamente simili se non addirittura più accentuate (come nel campo delle scienze di frontiera), poiché la ricerca è subordinata e condizionata da finanziamenti soprattutto privati.

Gli autori della ricerca sottolineano infine, come simili dinamiche (e quindi simili ostacoli all’andamento auspicabile del progresso scientifico) si verificano e vengono addirittura accentuate, quando la superstar scientifica si occupa anche di divulgazione al pubblico.

Le superstar scientifiche che si occupano di comunicazione scientifica, o i comunicatori scientifici che diventano superstar, potrebbero rappresentare un ulteriore problema per l’avanzare della scienza nell’interesse collettivo (e forse in Italia lo sappiamo bene!)

In ultimo, perchè i risutlati di questa ricerca non hanno trovato spazio nei mass media mainstram in Italia? Forse perchè mettono in risalto, per la prima volta in modo oggettivo, la presenza di un sistema di potere che mina le fondamenta dello status quo e può ledere l'immagine e la credibilità di qualche superstar scientifica italiana?

Approfondimento su questo ed altri temi riguardanti il mondo della comunità scientifica leggi qui

Stefano Nasetti

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Le persone possono prevedere ciò che scriverai sui social anche se non sei sui social

Ormai molti sanno che viviamo in un’epoca di raccolta dati. Internet e tutte le tecnologie connesse alla rete (dagli smartphone ai nuovi agli elettrodomestici di casa) forniscono ai giganti del web (con Google, Facebook, Microsoft schierate in prima fila), terabyte di dati ogni secondo che rivelano ogni aspetto delle nostre vite.

Sebbene ormai questa sia cosa abbastanza nota, quante persone sono davvero coscienti di quanto questi dati possano rivelare di ciascun cittadino?

La quantità e la qualità dei dati sono così importanti che, oltre ad alimentare un vero e proprio mercato delle informazioni, in cui pacchetti di dati sono poi venduti da un’azienda a un’altra per fini commerciali, alimenta anche un mercato clandestino nel dark web dove tra la moltitudine di dati, quelli riguardanti lo stato di salute delle persone sono quelli più costosi, ancor più di user e password di conti bancari.

Ma non tutti sono interessati ai dati per trarne un profitto, diretto o indiretto.

Sono soprattutto i Governi a essere interessati ad analizzare e “lavorare” i dati raccolti dai grandi giganti del web, poiché da questi possono ricavare un quadro abbastanza preciso di ciascun cittadino.

Che ciò accade sistematicamente e che questa tendenza sia in aumento lo dimostrano i report, pubblicati periodicamente dai vari social, delle richieste di accesso ai dati ricevuti dai vari governi (liste nelle quali è il “democraticissimo e garantista” Governo a stelle e strisce a fare la parte del leone).

In articoli di alcuni anni fa, ho già fornito evidenza di come già solo attraverso i dati raccolti sui social, si può tracciare facilmente il profilo di un’utente individuando con precisione il suo orientamento politico, sessuale, religioso, ecc., in modo rapido e automatizzato.

Negli ultimi anni, sempre più utenti ne hanno avuto abbastanza, limitando il loro uso dei social media o eliminando completamente i loro account, pensando che questo sia sufficiente a sfuggire a questa costante profilazione coatta.

Tuttavia questa non è garanzia di privacy, come ha confermato un nuovo studio compiuto dai ricercatori dell'Università del Vermont di Burlington .

Dai risultati di questo studio è emerso che è molto più facile di quanto sembri capire il carattere, le abitudini e le idee di una persona da una “sorveglianza di seconda mano". Ma di cosa si tratta?

I ricercatori dell'Università del Vermont di Burlington hanno provato a profilare utenti che non avevano più account social, monitorando l’attività e il contenuto di altri utenti a lui collegati. Il loro obiettivo è stato quello di provare a prevedere il contenuto di nuovi messaggi (su Twitter).

Sostanzialmente hanno messo appunto degli algoritmi in grado di anticipare le parole future che un utente avrebbe scritto nei suoi successivi twitter, usando una misura nota come entropia. Più entropia significa più casualità e meno ripetizioni.

Se è vero che qualcosa di simile è già presente nelle “tastiere virtuali” degli smartphone, che spesso “suggeriscono” la parola che vorremmo scrivere ancor prima di digitare la prima lettera, a differenza di questi sistemi già esistenti (che utilizzano le sequenze di parole che abbiamo già digitato in precedenza per fornire il suggerimento), i nuovi algoritmi messi a punto dall’equipe di ricercatori anglo-statunitensi, utilizzano invece le informazioni delle altre persone che sono in contatto con l’utente sotto esame.

Per valutare l’attendibilità della previsione dei nuovi algoritmi, i ricercatori hanno prima esaminato i flussi Twitter di 927 utenti, ognuno dei quali aveva da 50 a 500 follower, prestando particolare attenzione ai primi 15 utenti con cui ciascuno di loro aveva twittato di più. Nel flusso di ciascuno dei 927 individui, hanno calcolato la quantità di entropia (casualità) contenuta nella sequenza di parole. Hanno quindi inserito quel numero in uno strumento, un’equazione, dalla teoria dell'informazione chiamato "disuguaglianza di Fano" per calcolare quanto bene il flusso di dati di una persona potesse predire la prima parola nel suo prossimo tweet. L’accuratezza è stata in media, del 53%, ma la percentuale scendeva nel prevedere ogni parola successiva alla prima.

Una volta ottenuto un parametro di riferimento, hanno calcolato l’accuratezza della previsione in base non solo allo stream dell'utente, ma anche a quello dei 15 contatti più vicini. La precisione è salita al 60%. Quando hanno rimosso il flusso dell'utente dall'equazione, lasciando soltanto i tweet dei contatti, tale cifra è scesa a circa il 57%.

Nello studio pubblicato su Nature Human Behaviour, i ricercatori hanno concluso che osservare i flussi dei contatti di un utente è quasi altrettanto valido, o addirittura meglio che sorvegliare direttamente l’utente stesso.

Con questo studio quindi, non solo si è dimostrata l’attendibilità del famoso adagio “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”, ma addirittura hanno dimostrato che non è necessario sorvegliare una persona per tracciarne il profilo.

È sufficiente “monitorare” le persone, gli amici o gli individui con cui interagisce maggiormente per riuscire addirittura a prevedere le parole che utilizzerà in futuro e dunque, volendo estenderne sommariamente il concetto, sebbene per ora soltanto in modo circoscritto, i pensieri.

Ciò che i tuoi contatti scrivono sui social può rivelare una quantità sorprendente di informazioni su di te.

Sono stati sufficienti solo 10 contatti per superare la precisione predittiva derivante dal proprio flusso Twitter individuale.

Per fare un confronto, la previsione di ciò che qualcuno scriverà basandosi su un assortimento casuale di tweet di estranei produce una precisione massima del 51%. Ciò rappresenta pressoché la stessa prevedibilità (53%) che si ottiene usando i tweet della persona stessa (anche perché c'è molta regolarità nella lingua inglese e in quello di cui parlano le persone.)

“I risultati mostrano quindi che, in linea di principio, si potrebbe approssimativamente prevedere cosa twitterebbe qualcuno che non è nemmeno su Twitter, o su un altro social” ha affermato James Bagrow, uno degli autori dello studio.

È sufficiente scoprire chi sono gli amici di una persona offline e poi trovare i feed di quegli amici sui social.

Come ho già fatto notare in un articolo del 2015 dal titolo “Smartphone o smartspy”, ma molte App (anche quelle preinstallate) richiedono l'accesso a molte funzioni del telefono che non rientrano nella diretta esigenza di quell’applicazione. In particolare molte richiedono accessi alla galleria delle foto, al registro delle chiamate e agli elenchi di contatti.

Oggi sappiamo, a seguito dei numerosi scandali che sono emersi negli ultimi anni, che alcune App, acquisiscono dati per poi condividerli e utilizzarli per profilare l’utente.

Facebook (App spesso preinstallata su tutti i telefoni), ad esempio, ha utilizzato le liste di contatti degli utenti per creare “profili ombra”, vale a dire pagine di persone che non si trovano nemmeno sulla rete.

In altri studi, altri ricercatori hanno già dimostrato come si posano utilizzare i tweet delle persone (o qualunque altro dato messo in rete) per prevedere la personalità, segni di depressione e orientamento politico, religioso e sessuale.

I tweet ipotetici basati sui tweet degli amici, come dimostrato da questa ricerca, potrebbero consentire le stesse conclusioni.

"Abbiamo appena scalfito la superficie di quali tipi d’informazioni possono essere rivelate in questo modo", ha affermato Joanne Hinds, altra coautrice della ricerca.

Ciò che dovrebbe essere preoccupante per tutti in termini di privacy, è che ci sono così tanti modi in cui i giganti del web stanno acquisendo dati, che la possibilità di controllo della popolazione sembra non avere limiti.

La gente non si rende conto di quanto tutto ciò comporti, comporterà (o potrebbe comportare) in termini di minaccia alla democrazia e alla libertà individuale.

Un'altra cosa che le persone non comprendono e non prendono neanche in considerazione, è che quando inseriscono i propri dati, le proprie abitudini ecc, nella rete attraverso la moltitudine di dispositivi “smart” che ormai ci circondano, non solo stanno mettendo a rischio o addirittura rinunciando alla propria privacy, ma stanno compromettendo anche quella dei propri amici.

Ciò che tutti pensano sia una scelta individuale, in realtà in un mondo interconnesso, non lo è.

Stefano Nasetti

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Il pianeta X non è necessario (forse)

 

Si torna a parlare nuovamente del pianeta X. Negli scorsi anni sono stati pubblicati diversi studi, ad opera di differenti atenei europei e statunitensi, che evidenziavano la presenza di anomalie orbitali nei pianeti del nostro sistema solare. I ricercatori, dati alla mano, avevano proposto modelli matematici per spiegare queste anomalie dovute, secondo la loro ipotesi, alla presenza di uno o più grandi corpi celesti oltre l’orbita di Nettuno.

Nello scorso decennio si è scoperto che oltre l’orbita di Nettuno, si trova la fascia di Kuiper, che è costituita da piccoli corpi, rimasti dalla formazione del sistema solare. Nettuno e gli altri pianeti giganti, con la loro gravità, influenzano gli oggetti nella fascia di Kuiper e oltre, collettivamente noti come oggetti trans nettuniani (TNO), che orbitano il Sole su percorsi quasi circolari in quasi tutti i piani orbitali.

Tuttavia, gli astronomi hanno scoperto alcuni misteriosi “fuori linea”, oggetti, circa una trentina, con orbite molto ellittiche e che condividono tra loro lo stesso orientamento spaziale. Questa scoperta, non potendo essere spiegata dai vecchi modelli del sistema solare a otto pianeti (più Plutone inizialmente considerato il 9° pianeta per poi essere declassato a pianeta nano), ha fatto ipotizzare la presenza del pianeta X, poi “confermata” da successivi studi.

In questi studi s’ipotizzava la presenza di un grande corpo celeste, il pianeta X appunto. Con un’orbita molto ellittica durerebbe addirittura tra i 10.000 e i 20.000 anni e una massa 10 volta a quella della Terra, successivi studi avevano addirittura concluso che questo pianeta, sebbene non ancora visivamente scoperto, sia addirittura il responsabile “dell’inclinazione” del Sole.

Questi studi hanno riscosso molti consensi all’interno della comunità scientifica, al punto che la maggioranza degli astronomi considera la presenza di questo pianeta ormai scontata e la sua scoperta visiva pressoché una questione di tempo.

Ma come spesso accade, finché non si ha certezza, nulla può essere dato per scontato.

Secondo un recente studio proposto dai ricercatori dell’Università di Cambridge e dall’università americana di Beirut, e pubblicato su The Astronomical Journal, le anomalie orbitali potrebbero avere una spiegazione differente, spiegazione che non richiederebbe necessariamente la presenza di un corpo gigantesco come il pianeta X.

La spiegazione alternativa si basa sull’ipotesi che al posto del pianeta X ci sia invece un disco composto da piccoli corpi ghiacciati con una massa complessiva fino a dieci volte quella della Terra. Nel nuovo studio, la forza gravitazionale combinata di questi piccoli oggetti in orbita attorno al Sole nella fascia oltre Nettuno, combinate con un modello semplificato del sistema solare, può spiegare l’insolita architettura orbitale esibita da alcuni oggetti alle estremità esterne del sistema solare.

Questa nuova teoria, anch’essa al pari dei precedenti studi che sotto intendevano la presenza del pianeta X, riesce quindi ad ottenere i medesimi risultati, dal punto di vista matematico. Dopo essere balzato alle cronache ormai decenni or sono, con la pubblicazione delle teorie dello scrittore azero Zacharia Sitchin (che aveva tratto informazioni dell’esistenza di un decimo pianeta, chiamato Nibiru in alcuni miti sumero-accadici), il Pianeta X sembrava ormai, sebbene con molte differenze, aver travalicato il limite della mitologia o della fantascienza, per fare il suo ingresso nella scienza ufficiale.

Gli studi ufficiali degli ultimi anni sembravano sul punto di confermare l’esistenza di un altro importante pianeta nel nostro sistema solare, un membro avente caratteristiche (l’orbita fortemente ellittica e le notevoli dimensioni) che richiamavano i racconti sumeri.

Il nuovo studio quindi rimette, di fatto, in discussione l’esistenza di questo famigerato pianeta.

Il nuovo studio infatti, al pari di tutti quelli che hanno supposto la presenza del pianeta X, non ha né maggiore né minore valenza degli studi precedenti.

Allora, il pianeta X esiste o no?

La comunità scientifica torna a dividersi sul tema ma, siccome come diceva Galileo Galilei: ”Le verità scientifiche non si decidono a maggioranza”, al momento e in attesa di nuovi dati, tutte le ipotesi rimangono quindi sul tavolo.

Stefano Nasetti

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La Cina sul lato oscuro della Luna

La Cina sul lato oscuro della Luna, là dove nessuno mai è giunto prima (almeno ufficialmente).

Dopo decenni di disinteresse generale, la Luna sembra essere tornata di moda.

La corsa al nostro satellite si aprì ufficialmente nel settembre 1959, quando la sonda sovietica Luna 2 si posò sul suolo lunare. La precedente missione sovietica, Luna 1, mancò il bersaglio. Luna 2 fu invece un successo. Era la prima volta per un veicolo umano, anche se l’atterraggio fu tutt’altro che morbido. La sonda era sprovvista di un sistema di atterraggio o propulsione e dunque impattò violentemente al suolo.

Il successo sovietico fu ripetuto un mese più tardi, con la missione Luna 3 che raggiunse e fotografò, per la prima volta nella storia, la faccia opposta della Luna, quasi totalmente invisibile dalla Terra e per questo spesso noto come “il lato oscuro della Luna”. Grazie alle foto inviate dalla macchina, furono creati i primi atlanti della nuova regione lunare seguita da molti fallimenti.

In piena corsa allo spazio, la Luna era l’obiettivo principale e irrinunciabile anche per gli Stati Uniti. Nel 1958 l’ente spaziale americano lanciò le sonde Pioneer, seguite dalle Ranger, collezionando una lunga serie d’insuccessi. Ci vollero diversi anni per eguagliare i successi sovietici. Solo fra il 1964 e il 1965, infatti, le missioni Ranger cominciarono a inviare a Terra le prime foto della Luna vista da vicino, prima di impattare contro il suolo lunare.

La metà degli anni '60 segnò una svolta positiva anche per l'Urss, che aggiunsero un nuovo primato alla loro collezione di successi spaziali. Nel febbraio 1966, la missione sovietica Luna 9 fu la prima a compiere con successo l’atterraggio morbido sulla Luna.

Lo stesso obiettivo fu raggiunto qualche mese più tardi (nel maggio dello stesso anno) dagli Usa con la missione con il Surveyor 1. Fu questo l’anno in cui le due superpotenze ebbero consapevolezza di avere raggiunto un pari livello tecnologico.

Quello della Surveyor fu anche il primo di una lunga serie di successi che aprì, di fatto, la strada allo storico allunaggio dell'Apollo 11, la missione che il 20 luglio 1969 ha portato i primi uomini sulla Luna. Nelle cinque missioni Apollo che l'hanno seguita (di cui una fallita, l’Apollo 13), 12 uomini hanno camminato sul suolo lunare e sono stati riportati a Terra numerosi campioni del suolo lunare, studiati in tutto il mondo ancora oggi.

Il fiore all'occhiello del programma sovietico restarono invece le missioni Luna 16, che nel 1970 riportò a Terra i primi campioni di suolo lunare (altro primato sovietico), e Luna 17, che rilasciò il rover Lunokhod 1 sul suolo lunare. All’Unione sovietica spettò anche il primato di chiudere, il 9 agosto 1976, la storia degli allunaggi, con la missione sovietica Luna 24.

Dei motivi, più o meno misteriosi che portarono all’improvviso e inspiegabile disinteresse verso il nostro satellite, ho già parlato in articoli precedenti. Così come rimane ancora ufficialmente molto strana la collaborazione tra USA e URSS del 1975, con la missione Apollo-Sojuz in piena guerra fredda.

Per quasi quarant’anni la Luna fu abbandonata. Le missioni di esplorazione si concentrarono su altri obiettivi come l’esplorazione di Marte (soprattutto con le missioni americano Mariner e Viking, anche se ai sovietici spetta ancora una volta il primato di aver fatto giungere il primo veicolo umano sul pianeta rosso) e del nostro sistema solare con le missioni Voyager.

Negli ultimi cinque anni però, la Luna torna a essere un obiettivo interessante come lo era stato alla fine degli anni '50, per quasi 18 anni. Oggi interessa soprattutto i Paesi che si affacciano allo spazio, come Cina e India, ma è tornata ad essere considerata un punto interessante anche per Usa e Russia oltre che per l’Europa.

Nel dicembre del 2013 la sonda spaziale Chang'e-3 (preceduta dalla sonda orbitale Chang’e 1 del 2007, e Chang’e 2 del 2010) si è posata sulla Luna, facendo così diventare la Cina, la terza nazione a riuscire nell'allunaggio, dopo Stati Uniti e Unione Sovietica. L'arrivo della sonda cinese Chang'e 3 sulla Luna ha rotto 37 anni di silenzio. Era, infatti, dal 1976 che un veicolo spaziale non si posava sulla superficie lunare e finora a raggiungere quest’obiettivo erano stati solo Unione Sovietica e Stati Uniti.

Nel 2013 la Cina è entrata in scena in grande stile, non limitandosi al semplice allunaggio ma facendo sbarcare dalla sonda Chang’e 3 (dal nome di una dea della Luna cinese), un piccolo rover (chiamato Yutu, come il coniglio che nella mitologia cinese accompagna la dea Chang'e nel viaggio verso la Luna) che per tre mesi ha esplorato il suolo lunare.

I dati e le immagini fornite dalle sonde cinesi hanno fatto molto discutere. Da alcune di esse si evincerebbe la presenza di strutture insolite che alcuni sostengono essere artificiali.

Negli anni successivi anche Unione Europea, India e Giappone sono riusciti con successo a far atterrare i propri rover, sulla faccia visibile della Luna e, mentre Stati Uniti Russia ed Europa, si stanno concentrando sulla creazione di una stazione spaziale in orbita cislunare e, in seguito alla creazione di basi permanenti sulla Luna, lo sfruttamento minerario della Luna ha allettato molte compagnie private.

Come spesso accade, mentre gli altri parlano e discutono, altri agiscono.

Incoraggiata dai successi della Chang’e 3, il prossimo 8 dicembre 2018 la Cina si prepara a lanciare l’ambiziosa missione Chang’e 4, con l’obiettivo ma riuscito ad alcuno, di far atterrare un lander sul lato nascosto della Luna.

Già annunciato come obiettivo raggiungibile entro il 2020, la Cina è addirittura in anticipo nei tempi previsti. Un inedito nelle missioni spaziali e che dimostra con quale e quanta rapidità ed efficienza la Cina si sta affacciando nel panorama internazionale anche nel settore aerospaziale. Il programma lunare cinese è infatti partito solo 2004.

Anche in questo caso, il lander ospiterà a bordo un rover, che esplorerà l’emisfero più misterioso del nostro satellite.

Dal momento che allunerà dal lato opposto, la Luna bloccherà il contatto radio diretto tra il controllo missione sulla Terra, il lander Chang'e 4 e il rover, il collegamento è stato affidato ad un micro satellite chiamato Queqiao, già lanciato nei giorni scorsi, che si posizionerà nel punto di equilibrio gravitazionale Terra-Luna, chiamato Punto di Lagrange 2 a circa 65.000 chilometri al di là della Luna stessa.

Il lander Chang'e-4 atterrerà nel cratere Von Kármán, la struttura d’impatto più grande, profonda e antica della Luna; all'interno del bacino del Polo Sud-Aitken. Probabilmente formato da un gigantesco impatto di un asteroide, il bacino è di circa 2500 chilometri di diametro e 12 chilometri di profondità. Secondo i geologi cinesi, l'impatto potrebbe aver portato in superficie il materiale dal manto superiore della Luna, uno scenario che i dati di uno spettrometro che misura lo spettro visibile e quello vicino all'infrarosso potrebbero essere in grado di verificare. Lo spettrometro a bordo della sonda cinese esplorerà anche la composizione geochimica del terreno del “lato oscuro della Luna”, che si ritiene differisca dal suolo del lato a noi rivolto a causa degli stessi processi che hanno prodotto la differenza nello spessore della crosta.

Infine, il radar del rover, simile a quello a bordo della precedente missione Chang'e-3, fornirà un altro sguardo fino a circa 100 metri sotto la superficie, sondando la profondità della regolite e cercando strutture sottosuperficiali. Combinare i dati del radar con le immagini di superficie raccolte dalle telecamere montate sul lander e sul rover, potrebbe far avanzare la comprensione degli scienziati del processo che ha portato i due emisferi Lunari, ad essere così diversi.

Esplorando il “lato oscuro della Luna” si apre anche "una finestra completamente nuova per la radioastronomia", ha affermato Ping Jinsong, un radioastronomo dell'Osservatorio astronomico nazionale cinese dell'Accademia delle Scienze (NAOC) di Pechino. Infatti, sulla Terra, e persino nello spazio vicino alla Terra, l'interferenza naturale e umana ostacola le osservazioni radio a bassa frequenza. La Luna invece blocca questo rumore terrestre. La missione sul lato nascosto della Luna dispone quindi di un trio di ricevitori a bassa frequenza: uno sul lander, uno (di fabbricazione olandese) sul rover e un terzo sul micro satellite Queqiao in un'orbita lunare (il contatto con un secondo micro satellite che trasporta un quarto ricevitore è andato perso).

I ricevitori potranno così ascoltare senza interferenze le raffiche di radiazioni solari, i segnali delle aurore su altri pianeti e i deboli segnali delle nubi primordiali di gas idrogeno che si sono formate nelle prime stelle dell'universo.

Oltre ai citati strumenti per lo studio della geologia lunare la sonda porterà anche un contenitore di 3 kg in lega di alluminio pieno di semi e insetti.

Zhang Yuanxun, capo progettista di una parte del Progetto Chang’e-4 ha detto al Chongqing Morning Post: “A bordo della sonda vi saranno patate, semi di arabidopsis  uova di bachi da seta. Le uova si schiuderanno dando vita ai bachi da seta che produrranno anidride carbonica, mentre le patate e i semi emetteranno ossigeno attraverso la fotosintesi. Insieme potranno creare un semplice ecosistema sul nostro satellite naturale”.

Una telecamera in miniatura ne mostrerà l’eventuale crescita. Se l’esperimento avrà successo non sarà comunque la prima volta che una pianta terreste crescerà nello spazio. Ormai sono decine le piante messe a cultura sulla Sazione Spaziale Internazionale. Il prima anche in questo campo spetta però sempre ai sovietici. Nel 1982, l'equipaggio della stazione spaziale sovietica Salyut 7 hanno coltivato con successo alcune Arabidopsis, diventando così le prime piante a fiorire e produrre semi nello spazio. Le piante hanno prosperato per 40 giorni.

L'ambizioso programma lunare della Cina continuerà poi il prossimo anno con Chang'e-5. Questa missione recupererà fino a 2 chilogrammi di terriccio e roccia lunare dall'Oceanus Procellarum, una vasta pianura lunare sul lato visibile della Luna, non toccata da precedenti allunaggi, originatasi, secondo i geologi, da uno dei più giovani flussi vulcanici della Luna.

Cosa scopriranno le missioni cinesi questa volta?

La Luna è il programma spaziale più strategico varato dalla Cina, ma nel frattempo si sta lavorando anche per la costruzione di una stazione spaziale (già sono stati sperimentati i moduli abitati Tyangong) e in prospettiva per arrivare su Marte. Per questo ultimo obiettivo Pechino sta collaborando anche con Mosca.

Il rinnovato interesse internazionale verso la Luna è certamente motivato da interessi economici (quali quello dello sfruttamento delle risorse energetiche lunari come l’Elio 3), da motivi strategici legati all’esplorazione di altri corpi celesti del nostro sistema solare (come lo sbarco dell’uomo su Marte) ma anche da motivazioni scientifiche. La lune da sempre ci affascina e forse ci nasconde sopra e sotto la sua superficie, sul “lato oscuro” in particolar modo, importanti informazioni riguardanti la nostra storia e quella del nostro pianeta.

Stefano Nasetti

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Lune aliene: aumentano le possibilità di vita extraterreste

Solo vent'anni fa alla domanda “siamo soli nell’universo?” la maggioranza della comunità scientifica rispondeva in maniera assolutamente negativa, ipotizzando al massimo solo la possibilità di una vita intesa come presenza di batteri o organismi molto semplici, e utilizzando frasi come “è assolutamente improbabile che ci siano omini verdi presenti nel cosmo”, prendendosi gioco apertamente di chi aveva posto loro la domanda.*

Nonostante non tutti fossero di quest’avviso, gli scienziati che si dimostravano più aperti alla possibilità di vita extraterrestre e che avevano il coraggio di partecipare a progetti di ricerca come quelli del SETI, venivano guardati con scetticismo e ilarità dagli altri membri della comunità scientifica.

Quest’ultima infatti, non riconosceva la serietà di questi studi, poiché arroccata sulle posizioni tradizionali della visione antropocentrica dell’universo (principio antropico) e sull’assurda presunzione dell’unicità della vita sulla Terra.

Quest’atteggiamento si registrava soprattutto tra i membri più anziani e più autorevoli della  comunità scientifica , quelli che, di fatto, ne tiravano le fila.

La perentorietà delle risposte, il sarcasmo e la presunzione di questi scienziati, nascondeva in realtà la paura degli stessi, di non essere in grado di rispondere alle inevitabili domande che, anche la semplice ammissione della possibilità di esistenza della vita aliena avrebbe comportato.

La conferma di tutto questo arrivò direttamente da un membro autorevole della comunità scientifica, l’astronomo Geoff Marcy dell’Università della California, il più famoso scopritore di pianeti extrasolari (ha scoperto 70 dei primi 100 esopianeti). In un’intervista televisiva rilasciata nel 2011, ha dichiarò: “…..fino agli anni ’90 il mondo scientifico non si poneva neanche la domanda riguardo alla possibilità dell’esistenza di vita intelligente su pianeti appartenenti ad altri sistemi solari, questo perché non si sapeva come scovare questi pianeti e quindi, volutamente, si evitava di parlarne perché non si sarebbe potuto dare una risposta”.*

Già, perché il 5 Ottobre 1995 all'improvviso e inaspettatamente tutto cambiò.

Michel Mayor e Didier Queloz, dell'Osservatorio di Ginevra, annunciarono di avere scoperto il primo pianeta extrasolare, di massa paragonabile a quella di Giove, attorno alla stella 51 Pegasi. Benché già nel 1989 e poi nel 1992 e nel 1993 fosse stata annunciata la scoperta di pianeti extrasolari, quella del 1995 fu davvero per l’intera comunità scientifica, la scoperta spartiacque.

Adesso che la tecnologia attuale consente di individuare in modo univoco altri pianeti che orbitano intorno ad altre stelle e identificare addirittura quelli presenti nella così detta “fascia abitabile”, la presenza di vita intelligente su altri mondi viene addirittura quasi data per scontata.*

Da quel giorno, infatti, sono stati scoperti migliaia di esopianeti. La scoperta procede a un ritmo esponenziale. Nei primi 18 anni (cioè fino al 2013) i pianeti extrasolari sono stati 1.000 mentre nei 5 anni successivi il numero è più che triplicato. Al 30 novembre 2018 i pianeti extrasolari scoperti sono 3.901 pianeti extrasolari in 2.907 sistemi planetari diversi (di cui 647 in sistemi multipli). Altri 213 esopianeti scoperti sono in attesa di conferma mentre altri 2.443 sono corpi celesti già individuati potenziali candidati a essere catalogati come pianeti. (Guarda 300 anni di scoperte esopianeti in 30 secondi)

Se prima nell’ambito della comunità scientifica si riteneva estremamente rara la presenza di pianeti attorno alle stelle, i dati raccolti negli ultimi anni hanno dimostrato che quasi ogni stella ha il suo gruppo di pianeti che le orbita attorno. Sono pianeti molto diversi ovviamente alcuni rocciosi, altri gassosi, alcuni nella cosiddetta fascia di abitabilità (né troppo vicini né troppo lontani dalla stella di riferimento, in modo che presentino condizioni di temperatura al suolo e pressione da consentire la presenza di acqua liquida), altri al di fuori.

Negli anni ’60-’70, ben prima della scoperta del primo pianeta extrasolare, l’astronomo Carl Sagan, uno dei fondatori del progetto SETI, aveva stimato che, solo nella nostra galassia, ci fossero un milione di civiltà intelligenti.*

Il suo collega Frank Drake, un po’ più conservatore, nel 1961 aveva sviluppato un’equazione matematica, nota come “Equazione di Drake” per calcolare il numero di civiltà intelligenti possibili. Questa equazione è entrata in tutti i libri di astrofisica del mondo.*

Secondo Drake le civiltà intelligenti presenti nella nostra galassia sarebbero “solo” 10.000. L'equazione tiene conto di numerose variabili quali ad esempio il numero delle stelle presenti nella galassia, il numero di pianeti rocciosi presenti nella cosiddetta fascia abitabile, il numero di questi in cui è presente acqua allo stato liquido, la durata di una civiltà prima che si autodistrugga. Ci sono però ancora troppe variabili a cui non siamo ancora in grado di dare un valore certo. Pertanto il risultato esatto di questa equazione, è destinato continuamente a essere aggiornato, sulla base dell’evoluzione delle nostre conoscenze in campo astronomico.*

L’ultimo aggiornamento in ordine di tempo è appunto avvenuto a fine 2012, quando l’astronomo italiano Claudio Maccone ha rivisto l’Equazione di Drake alla luce delle ultime scoperte dei pianeti extrasolari. I risultati delle più recenti ricerche hanno appunto rivelato, che i pianeti sono molto più diffusi di quanto si potesse immaginare cinquanta anni fa. Tutto ciò ha quindi reso indispensabile l’aggiornamento dell’Equazione di Drake, trasformandola appunto nella così detta Equazione di Drake Statistica.*

Il risultato della nuova equazione ha dunque stabilito che il numero delle civiltà intelligenti della nostra galassia sarebbero approssimativamente 4.590. La nuova formula ha permesso anche di abbassare drasticamente la distanza media alla quale si troverebbero dalla Terra queste civiltà. Si stima, infatti, una distanza media di “soli” 2.670 anni luce dalla Terra, con il 75% di probabilità che almeno una di queste civiltà si trovi tra i 1.361 e i 3.979 anni luce da noi. Una distanza tuttavia pur sempre enorme, che sembrerebbe escludere ogni possibilità di comunicazione.*

Questa stima però è stata fatta con i dati disponibili fino al 2012, quando, come detto, i pianeti extrasolari scoperti erano ancora meno di 1.000.

Oggi questo numero è più che triplicato oltre al fatto che si è scoperto che esistono altre stelle (le nane rosse) non visibili a occhio nudo, poiché emettono una luce nello spettro dell’infrarosso, che sono numericamente le più diffuse nella nostra galassia (il triplo di quelle simili al nostro Sole). La maggioranza dei pianeti extrasolari scoperti orbita proprio attorno a questo tipo di stelle, più piccole e meno calde del Sole. Sebbene oggi si ritenga più difficile che possano consentire ai pianeti del loro sistema di ospitare forme di vita, la questione non può essere esclusa.

Negli ultimi anni, infatti, sono state scoperte sulla Terra forme di vita in grado di prosperare in condizioni estreme, senza luce, acqua e/o ossigeno, in grado di resistere a pressioni incredibili o di vivere in luoghi apparentemente inospitali come laghi di arsenico o idrocarburi.

L’acqua ritenuta da sempre essenziale, benché come appena detto, questo sappiamo oggi non sia necessariamente vero, è stat scoperta sulla Luna, su Marte, su Cerere e su Mercurio.

Se tutto questo non fosse ancora sufficiente ad ampliare le possibilità di vita extraterrestre, c’è da aggiungere che già nel nostro sistema solare, ben fuori dalla “fascia di abitabilità” e lontano dai pianeti rocciosi prima considerati essenziali per la vita, sono stati individuati altri ambienti potenzialmente ospitali alla vita. Parliamo delle lune che orbitano attorno a pianeti gassosi come Giove e Saturno. Le lune Europa (Giove), Ganimede (Giove) ed Encelado (Saturno) hanno oceani di acqua salata sotto a una crosta di ghiaccio, in condizioni tali da poter ospitare forme di vita. Ma anche gli oceani d’idrocarburi della luna Titano (Saturno) potrebbero averne.

Nel nostro Sistema Solare sono presenti un gran numero di lune che orbitano attorno ai pianeti. L’astronomia di oggi tenta di scoprire se i satelliti naturali sono così comuni anche al di fuori del Sistema Solare. Risale, infatti, al mese di ottobre 2018 l’annuncio della scoperta del primo esopianeta candidato a ospitare un’esoluna, ma la conferma delle prime rilevazioni dell’oggetto è ancora in corso.

Un passo in più verso la soluzione del mistero delle esolune ci viene fornito da un nuovo studio, pubblicato su Astrophysical Journal Letters, condotto dai ricercatori dell’università di Zurigo, guidati dall’astrofisico Judit Szulágyi.

Se giganti di ghiaccio possono formare i loro satelliti naturali, significa che la popolazione delle lune nell’Universo è molto più abbondante di quanto si pensasse, dato che nel cosmo la categoria di pianeti ghiacciati è molto comune” - riassume il Dr.Szulágyi. “Possiamo quindi aspettarci molte altre scoperte di esolune nel prossimo decennio”,  ha affermato l’astrofisico.

Questo risultato è significativo anche nell’ottica della ricerca mondi abitabili. Gli oceani sotto la superficie sono posti ovvi in ​​cui la vita come noi la conosciamo potrebbe potenzialmente svilupparsi” - ha continuato Judit Szulágyi. “Quindi una popolazione molto più grande di lune ghiacciate nell’Universo implica un maggior numero di mondi potenzialmente abitabili, molti di più di quanto si era immaginato finora. Saranno quindi degli obiettivi eccellenti per cercare la vita al di fuori del Sistema Solare”. Le esolune saranno dunque la nuova frontiera della ricerca di vita aliena?

L’equazione di Drake dovrà dunque essere radicalmente rivista. Dovrà contemplare no più solo i pianeti rocciosi nella fascia abitabile ma anche tutte le lune, sia quella dei pianeti rocciosi, sia quelle dei pianeti gassosi dentro e fuori la fascia di abitabilità, oltre a dover aggiungere tutti quei pianeti che orbitano attorno a stelle diverse dal Sole, come le numerosissime nane rosse.

Alla luce di tutto ciò, la scienza sì è dovuta ricredere. In attesa di riscontri ufficiali, quantomeno la possibilità che la vita (anche in forma intelligente) si sia sviluppata solo sulla Terra è pressoché esigua se non nulla. Siamo dunque soli nell’universo? Solo vent’anni fa la comunità scientifica rispondeva “quasi certamente sì”.

Oggi la risposta è diametralmente opposta: “Quasi certamente no”.

*(i paragrafi con l’asterisco sono tratti dal libro del 2015 Il Lato Oscuro della Luna)

Stefano Nasetti

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Proposta l'istituzione della Banca mondiale del DNA

La rivista Scienze ha pubblicato la proposta di istituire una banca dati universale del Dna al servizio della medicina forense. La proposta è stata avanzata da un gruppo di ricerca della Vanderbilt University di Nashville, negli Stati Uniti, guidato da James Hazel.

Recentemente, negli Stati Uniti ma anche in Europa, i database con i dati genetici disponibili al pubblico, che appartengono alle aziende private, hanno permesso di identificare dei presunti killer, collegando il Dna trovato sulla scena del crimine con le informazioni genetiche date volontariamente dai loro familiari. Al di fuori delle banche dati pubbliche, i dati genetici conservati in quelle private possono invece essere ottenuti dietro un mandato di comparizione.

Secondo i ricercatori, le richieste di dati privati inoltrate delle forze dell'ordine sono destinate ad aumentare, a seguito della sempre maggiore diffusione di questi metodi d’indagine. Anche se il Dna è un potente strumento per risolvere i crimini, sorge la questione riguardo quali corpi di polizia potrebbero avervi accesso e dell'unione dei dati genetici provenienti da server pubblici e privati.

Secondo questi “scienziati” l'istituzione di una banca mondiale del DNA sarebbe più produttiva, meno discriminatoria e garantirebbe una maggiore privacy, poiché permetterebbe di superare alcuni pregiudizi collegati agli attuali database forensi, che sono costituiti in gran parte da campioni di persone arrestate o condannate generalmente giovani e di colore, a differenza di quelli privati che invece hanno il Dna di persone bianche.

Siamo al paradosso! Come è possibile affermare che una schedatura definitiva completa e sistematica della popolazione (perché questo in sostanza è stato proposto, nascosto con il nome di “Banca dati universale del DNA per la medicina forense”) come possa garantire maggiore privacy.

Viviamo in un mondo in cui ogni aspetto della nostra vita è ormai osservato, catalogato e studiato attraverso la massiccia raccolta di dati che avviene con ogni mezzo, dagli smartphone, ai computer, dagli ormai onnipresenti oggetti SMART (connessi alla rete), alle carte fedeltà o di pagamento, dai miliardi di telecamere con riconoscimento facciale poste in ogni dove nelle città e nei centri commerciali, fino ai satelliti che scrutano dall’alto ogni cosa. Continuamente ogni cosa che facciamo è osservata, ogni parola pronunciata è registrata. In tutto questo, mentre la “propaganda” spinge sempre più verso l’integrazione uomo macchina iniziando ad esempio, dalla promozione all'uso dei microchip sottocutanei già diffusi in molti Paesi dell’Europa settentrionale, il concetto di privacy, ultimo apparente baluardo di quella una pallida idea che chiamiamo ancora libertà, viene minacciato.

Con l’introduzione della carta d’identità elettronica (che ha imposto il prelevamento delle impronte digitali, già proposto in precedenza per il rilascio dei passaporti) la "schedatura classica" sistematica delle persone, fin dai bambini, è divenuta una realtà.

Fino a una decina di anni fa, o poco più, la schedatura classica, cioè la raccolta delle generalità (nome, cognome, età, sesso, altezza, peso, ecc.) dei segni particolari e distintivi (come foto del volto di fronte e di profilo e le impronte digitali) che oggi sono genericamente chiamati “parametri biometrici”, era riservata ai criminali. Una volta tratti in arresto, si passava appunto a “schedare” il criminale o presunto tale.

Oggi, il medesimo trattamento è riservato indiscriminatamente a tutta la popolazione, ma nessuno sembra essersi indignato per questo. La scusa è quella di garantire maggiore sicurezza ma, la realtà dei fatti dimostra che non è assolutamente così.

In quelle che noi continuiamo a chiamare impropriamente “democrazie” l’ingerenza dello Stato, si fa sempre più pressante e coercitiva. Non si è più propriamente liberi di manifestare pubblicamente, sebbene non si calunni, insulti o diffami nessuno, il proprio pensiero se questo non è conforme ad alcune idee dominanti (il riferimento è alle leggi sul negazionismo). Non si è più padroni del proprio corpo e della propria salute (il riferimento è ai crescenti e sempre più diffusi obblighi vaccinali).

In Francia, spesso considerata patria della democrazia in Europa (poiché i principi democratici erano francesi erano stati “importati” dai nascenti Stati Uniti, nel 1776), le cose vanno addirittura peggio. È stata infatti proposta dal “democratico” Macron, l’istituzione di un tribunale deputato a stabilire, in perfetto stile orwelliano, cosa sia vero e cosa no. Un “ministero della verità” insomma.

Oggi dai “democraticissimi” Stati Uniti, quelli che esportano la “democrazia” con le bombe e che spiano tutti, Governi amici e nemici e l’intera popolazione mondiale,  si propone di istituire l’ennesimo, ma non ultimo dato che il microchip sottocutaneo non è ancora obbligatorio, strumento di controllo, come la banca dati mondiale del DNA.

Possibile che nessuno si ponga la questione riguardo la minaccia che questo eventuale sistema di raccolta dati, pone alla libertà personale e alla democrazia.

È davvero necessario dover ricordare che questi dati, conservati su server, potrebbero finire nelle mani sbagliate? Ogni sistema informatico è violabile, non solo da hacker criminali ma, soprattutto (Edward Snowden docet) dai Governi, che possono legalmente o illegalmente accedere a questi dati e farne ciò che vogliono. La concentrazione di dati nelle mani di pochi, costituisce una seria minaccia alla libertà e alla democrazia. Le informazioni sono la primaria fonte per l'ottenimento o il mantenimento del potere!

Solo per fare un esempio, sostituire sui server il nome di un profilo genetico con un altro, può determinare l’accusa o l’assoluzione di una persona. Pensate davvero che queste cose non possano accadere o che ci sarà qualcuno che potrà mai garantire che ciò non accada?

Negli ultimi anni è già la seconda volta che la rivista Science pubblica una proposta di raccolta massiva e sistematica del DNA di tutta la popolazione. Anche nel precedente caso, avvenuto nel gennaio del 2017, la proposta veniva da scienziati statunitensi.

Nel frattempo altri Paesi (Italia compresa) hanno istituito i propri centri di raccolta del DNA. Per il momento dei soli carcerati ma si sa, come già avvenuto ad esempio per i vaccini, una volta fatto accettare alla popolazione il provvedimento in linea di principio, ad allargare la platea degli obbligati si fa presto, è solo il passo successivo.

Parallelamente continuano le iniziative private per creare banche dati del DNA (come quella dell'industria farmaceoutica Astra Zeneca).

Ma l’opinione pubblica dov’è? I Mass media? E gli scienziati nostrani cosa ne pensano?

Secondo il genetista Giuseppe Novelli, intervistato dalla’agenzia ANSA, si tratta di una proposta interessante, ma che suscita diverse perplessità: "Al momento ci sono pochi dati a supporto dell'idea che una banca dati universale possa aiutare a ridurre il crimine. Prima di dire che è efficace e ha dei benefici, bisognerebbe sperimentarla almeno in uno stato per alcuni anni e vederne l'impatto". Secondo Novelli sarebbe meglio usare banche dati del genere "per identificare i cadaveri senza nome o nei luoghi dei disastri di massa".

Se questo rappresenta il massimo della discussione, appare chiaro quindi, che siamo già oltre. Non si discute se sia opportuno istituirla o meno, quanto piuttosto cosa farne dei dati raccolti.

Siamo o stiamo andando, ormai verso un futuro orwelliano in cui chiameremo “democrazia” la dittatura, tanto per illuderci di essere ancora liberi.

Quando i nostri figli, o più probabilmente i nostri nipoti, guarderanno alle nostre generazioni odierne, piangeranno pensando a quanto avevamo ottenuto a livello di diritti e libertà, e a quanto abbiamo perso senza fare assolutamente nulla ma anzi, plaudendo e accompagnando ciascuna di queste privazioni illiberali e antidemocratiche con soddisfazione e sorriso sulle labbra, pensando che si tratti di complottismo. Ci ricorderanno con rancore a causa della nostra indifferenza, il nostro egoismo, il nostro egocentrismo che non ci ha permesso di unirci per fronteggiare il subdolo avanzare di questo autoritarismo che si respira ormai in ogni campo, dalla scienza alla politica.

Stiamo vivendo un nuovo medioevo. Anche se apparentemente più civilizzati, più tecnologicamente avanzati, mediamente più eruditi, enormi passi indietro sono stati fatti negli ultimi due decenni dal punto di vista del rispetto dei valori e dei diritti individuali e democratici. Distratti dai gadget tecnologici e dalla propaganda mediatica, la società moderna ha perso molti dei suoi principi e valori individuali e sociali.

Politica ed economia hanno utilizzato (e stanno utilizzando) il progresso scientifico e tecnologico per circoscrivere sempre più i diritti dei cittadini, facendosi sempre più oppressivi. In presenza dell’incapacità conclamata della gente di discutere di valori e principi, di identificare quelli comuni e di unirsi in difesa di questi, non resta che dire “si salvi chi può”, consapevoli che forse non c’è più alcun posto in questo mondo, dove cercare salvezza.

Stefano Nasetti

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InSight è giunta su Marte con un “equipaggio speciale”

Il 26 novembre 2018, alle 20:54 ora italiana, la sonda InSight è ammartata.

InSight è il 15/o veicolo a toccare il suolo marziano a partire dal 1971, quando sul pianeta rosso si era posato il sovietico Mars 2, distrutto durante la discesa. Non sono mancati i fallimenti delle missioni precedenti, se consideriamo che solo 7 missioni su 16 sono state pienamente operative. L’ultimo fallimento risale a poco più di due anni fa. Il Lander Schiaparelli dell’ESA, si schiantò sulla superficie del pianeta rosso a causa del malfunzionamento di un software. Oggi sono al lavoro su Marte altri due veicoli, entrambi della Nasa: Curiosity, che era arrivato nel 2012, e Opportunity, del 2004. Molti di più sono quelli ancora operativi se consideriamo anche gli orbiter:

  • Mars Odissey in orbita intorno a Marte dal 24 ottobre 2001, era stata inviata con l’obiettivo di trovare tracce di acqua sul Pianeta Rosso. In questo momento è usato come ripetitore tra Opportunity e la Terra;
  • Mars Reconnaissance Orbiter (MRO): lanciato il 12 agosto 2005 ed entrato in orbita il 10 marzo del 2006. Sta tuttora analizzando il pianeta alla ricerca di un luogo idoneo all’atterraggio per missioni future. Attraverso le sue immagini ad altissima risoluzione e a una strumentazione d’avanguardia (almeno all’epoca del lancio), aveva ed ha ancora, l’obiettivo di analizzare la geologia e l’atmosfera del pianeta. Grazie alle immagini di MRO era stata scoperta sul suolo marziano già dal 2017, la presenza di rivoli d’acqua stagionale, scoperta annunciata ufficialmente dalla Nasa solo nel settembre 2016.
  • MAVEN (Mars Atmosphere and Volatile EvolutioN): la missione ha come obiettivo lo studio del clima di Marte. Orbita intorno al pianeta dal 22 settembre 2014.
  • Mars Express: missione dell’ESA lanciata il 2 giugno ed entrata nell’orbita di Marte il 25 dicembre 2003. Era composta dal modulo Mars Express Orbiter (ancora in funzione), che ha mostrato per la prima volta e con dettagli inaspettati la Valles Marineris, e dal lander Beagle 2 (non più operativo), scomparso fino al 16 gennaio 2015 (trovato poi da MRO).
  • Orbiter Mission Mars: prima missione marziana indiana. La sonda chiamata anche Mangalyaan (veicolo marziano in sanscrito) è arrivata sul pianeta rosso il 24 settembre del 2014.
  • ExoMars: missione dell’Esa, composta dall’omonimo orbiter (ancora operativo) che ha il compito di studiare l’atmosfera Marziana, e dallo sfortunato lander Schiaparelli.

In somma, InSight è in buona compagnia e dopo aver viaggiato assieme a due minisatelliti Cubesat MarCO A e B (acronimo di MARs Cube One, che hanno avuto il compito di trasmettere i primi segnali di InSight dal suolo di Marte) avrà il compito di esplorare il sottosuolo marziano.

Rob Grover, responsabile della fase Edl (entrata, discesa e atterraggio) di InSight, aveva spiegato così la scelta del sito di ammartaggio, nella regione Elysium Planitia: "Questa regione vulcanica, in prossimità dell'equatore, sembra essere ancora geologicamente attiva e rappresenta il luogo ideale per studiare il mantello e il sottosuolo marziano”.

Come si evince facilmente da questa dichiarazione, infatti, Marte non è più considerato un pianeta morto.

La missione InSight non sarebbe neanche stata progettata se i dati delle precedenti missioni, sia quelle ancora attive, sia quelle ormai terminate, non avessero stravolto completamente l’idea trentennale che la comunità scientifica si era fatta di Marte, sulla base delle poche immagini e dati raccolti dalle missioni Mariner e Viking degli anni ’70.

Fino a qualche anno fa infatti, l’idea prevalente di un Marte freddo, arido, inospitale alla vita, geologicamente morto era ormai considerata una certezza. Le missioni che sono state progettate dalla metà degli anni ’90 fino ai primi del nuovo millennio, avevano lo scopo di cercare conferme a questa idea.

I dati raccolti però non solo non hanno confermato questa idea, ma l’hanno addirittura smentita completamente.

Scoperte sensazionali si sono avute senza soluzione di continuità:

Tutte queste evidenze hanno aperto scenari inimmaginabili solo vent’anni fa, obbligando a ridiscutere l’idea che l’uomo aveva di Marte, del suo passato e del suo futuro.

Nell’ultimo decennio, infatti, anche i privati (come Space X di Elon Musk e MarsOne di Bas Lansdorp) hanno iniziato a sviluppare progetti per colonizzare Marte.

Sì, perché scoprire che il pianeta presente caratteristiche tali da poter consentire ancora (con i dovuti accorgimenti) il sostentamento della vita è un qualcosa di veramente rivoluzionario.

Ma in attesa che qualcuno di questi progetti possa veramente venire alla luce e consentire così all’uomo di calcare le sabbie di Marte, si continuano a cercare conferme alla nuova idea di un Marte ancora vivo. Si sa, scardinare delle idee decennali è difficile, soprattutto in ambito scientifico dove, nonostante ci si dovrebbe basare sull’evidenza dei dati, troppi sono gli interessi, di lobby e gruppi di potere ma anche semplicemente personali, che sottintendono le logiche di gestione della scienza, del suo sapere e della divulgazione presso il pubblico.

InSight proverà a fornire altre conferme e, come dice il suo nome (letteralmente “guardare dentro”) avvalendosi di un sismografo e di una sonda, misurerà la temperatura fino alla profondità di cinque metri, rivelando così se all'interno del pianeta rosso esista ancora una forma di calore. 

Se l’ipotesi fosse confermata, si potrebbe dedurre che l’acqua salata scoperta nel luglio 2018 sotto i ghiacci del polo sud Marziano, potrebbe essere addirittura più calda di quanto si pensi, aggiungendo così un nuovo tassello alle probabilità di trovare forme di vita marziane.

Mentre si cercano segni di vita marziana, e in attesa che l’uomo arrivi fisicamente sul pianeta rosso, InSight ha virtualmente portato la prima colonia umana su Marte.

Una colonia molto numerosa, composta di 2.429.807 persone di tutto il mondo (gli italiani sono 75.093, l’Italia è il sesto Paese più rappresentato dopo Stati Uniti, Cina, India, Regno Unito e Turchia) che, aderendo ad una campagna di divulgazione scientifica della Nasa, hanno potuto scrivere il proprio nome su due chip di silicio di appena 8mm montati su InSight.

Dopo un viaggio di quasi sei mesi e di quasi 100.000.000 di km, all’ammartaggio di InSight del 26 novembre 2018, simbolicamente una parte di queste persone, rappresentato dal loro nome, è giunta per la prima volta su un altro pianeta e lì vi rimarrà forse per sempre.

Un’idea romantica ma anche di forte impatto mediatico. Chissà se un giorno qualcuno, ritrovando InSight su Marte, riuscirà a recuperare il chip e vedere i nomi scritti sopra. Chissà se questi nomi sono stati davvero i primi nomi propri di forme di vita intelligenti a essere presenti su Marte. Chissà se sono stati i primi nomi di esseri umani a giungere sul pianeta rosso. Chissà se saranno gli ultimi.

Le prossime missioni Mars2020 della Nasa ed Exomars2020 dell’Esa forse potranno rispondere a queste domande. Nel frattempo ogni possibilità resta sul tavolo….

Stefano Nasetti

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Un faro terrestre per alieni

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista UFO INTERNATIONAL MAGAZINE nel numero di Febbraio 2021)

Nell’immaginario collettivo l’ipotesi di un contatto extraterrestre è un qualcosa di altamente inverosimile. Per chi basa le proprie idee esclusivamente su ciò che è diffuso dalle autorità politiche e scientifiche attraverso i mass media mainstream, scienza e politica non si occupano di alieni.

Secondo questa diffusa ma errata idea, la ricerca di vita extraterrestre si concentra su forme di vita abbastanza semplici, come batteri ad esempio, e non a forme di vita più complesse o addirittura a civiltà intelligenti. Secondo il concetto di “vita” stabilito dalla Nasa “la vita è un sistema chimico autosufficiente, capace di evoluzione darwiniana”. Sul medesimo concetto si basano dunque tutti i centri di ricerca spaziale.

Si è dunque portati a pensare che la possibilità di un reale contatto con forme di vita aliene intelligenti, sia materia per illetterati ricercatori alternativi e ufologi di ogni sorta, spesso dipinti dai mass media come persone facilmente suggestionabili e completamente a digiuno di materie scientifiche.

Come diceva Einstein però “L’irriflessivo rispetto delle autorità è il più grande nemico della verità”, ed anche in questo caso ciò che si ritiene “reale” perché solo perché ufficialmente affermato, si rivela completamente errato.

Esistono in ambito politico, numerosi trattati, accordi e regolamenti tra nazioni, che stabiliscono quale debba essere il comportamento da tenere in caso di “contatto” ufficiale con civiltà aliene. Sebbene tutto questo non confermi l’esistenza di tali civiltà, né tantomeno di un contatto già avvenuto, conferma almeno il fatto che la possibilità è tutt’altro che remota, improbabile e inverosimile come invece si vuol far credere.

Se il fenomeno Ufo non esiste, se il contatto con altre civiltà aliene fosse assai improbabile (come spesso si sente ripetere richiamando ogni volta il famoso paradosso di Fermi: dove sono tutti quanti?), perché emanare questo tipo di regolamenti e vademecum in caso di contatto alieno?

Potrebbe sembrare questa una semplice dissertazione filosofica, se anche la scienza non si fosse preoccupata in passato e anche oggi, di compiere studi per provare a trovare e stabilire un qualche contatto con civiltà non terrestri.

I messaggi contenuti nel Voyager Golden Record, imbarcato sulle sonde Voyager inviate all’esplorazione del nostro sistema solare nel 1977, il progetto SETI (Serch Extraterrestrail Intelligence) nato negli USA alla fine degli anni ’50 e finanziato ancora oggi da alcuni Paesi attraverso vari organismi statali (in Italia se ne occupano alcuni importanti astrofisici dell’INAF – Istituto Nazionale di Astrofisica – come Claudio Maccone e Stelvio Montebrugnoli) o il progetto Breakthrougt Listen finanziato da privati ma sostenuto da importanti scienziati di fama mondiale come Stephen Hawking, solo per citare i più conosciuti, sono lì a dimostralo.

Tuttavia, ogni qualvolta che s’intraprende una discussione sull’argomento "alieni", s’incappa nell’immancabile saccente e pedante ossequioso delle teorie dominanti che, sebbene non abbia probabilmente mai letto alcun libro di astrofisica o di astronomia, non conosca nulla di biologia, di storia o più in generale di scienza, interviene con supponenza “a gamba tesa” nel dibattito per ricordarci che “nulla può viaggiare più veloce della luce” e che quindi, “considerate le enormi distanze che separano le stelle, il contatto con altre civiltà, qualora esistessero contemporaneamente alla nostra, sarebbe comunque impossibile”.

Nulla vale in questi casi, far presente al presunto genio di turno, che misurare ciò che è possibile o impossibile, ciò che è reale e ciò che non lo è, utilizzando l’uomo, la sua attuale conoscenza e le sue odierne capacità tecnologiche, come “unità di misura dell’universo” è un atto di presunzione e arroganza. La storia stessa della scienza (se la si conoscesse) è lì a testimoniare quanto ciò sia errato.

Se anziché ascoltare certe “autorità”, accettare e ripetere pedissequamente ciò che si è capito (che a volte non corrisponde neanche a ciò che è stato realmente detto), ci si provasse a documentare direttamente e non per interposta persona forse la propria assurda idea cambierebbe. Sarebbe sufficiente sfogliare riviste scientifiche ufficiali o frequentare i siti delle varie agenzie spaziali o degli organismi scientifici, se proprio si ha un’idiosincrasia per i libri, per rendersi conto che ciò che è mediaticamente diffuso, non corrisponde poi all’idea di fondo che invece sottintende molte ricerche scientifiche e molti progetti di enti scientifici governativi.

Nei miei libri o nei miei articoli ho sempre cercato di portare in evidenza questo aspetto ma, siccome l’analfabetismo funzionale è ormai dilagante, forse soprattutto in chi si uniforma proprio al pensiero dominante, il concetto fatica ad essere compreso. Come si dice “a lavar la testa al somaro si perde il tempo, l’acqua e sapone”.

Personalmente non ho alcuna verità da dispensare, tuttavia invito ancora chi ancora ritenga che la scienza non si occupi veramente del contatto con civiltà extraterrestri, a documentarsi su quante numerose siano le ricerche pubblicate ogni anno sulle principali riviste scientifiche internazionali, che trattano seriamente l’argomento.

La possibilità è ritenuta talmente tanto concreta, anche in ambito scientifico, che è vivo il dibattito tra gli scienziati che ritengano “utile” un contatto con civiltà extraterrestri, probabilmente più avanzate di noi, e chi invece non manchi occasione di invitare l’umanità a evitare tutto questo.

A tal proposito vorrei citare in questa sede due ricerche, pubblicate in anni diversi da astronomi di Paesi e università diverse, che hanno proposto l’utilizzo di una tecnologia simile, in merito al possibile contatto alieno, con scopi diametralmente opposti.

Il primo studio a cui mi riferisco, è stato pubblicato nel 2016 sulla rivista Monthly Notice of the Royal Astronomici Society per opera di due astronomi americani della Columbia University di New York.

Partendo dal presupposto che esistano gli alieni (o altrimenti dovremmo pensare che siano stati presi da un raptus di follia o perché non avevano altro da fare) e che questi possano non essere amichevoli nei nostri confronti, hanno studiato attraverso complicati calcoli matematici, la possibilità di realizzare una sorta di raggio laser in grado di compensare il calo di luminosità che la Terra crea durante il suo transito davanti al Sole, celando, di fatto, l’esistenza del pianeta a un’eventuale civiltà aliena alla ricerca di pianeti abitati. Di questo studio ne ho ampiamente parlato in un mio precedente articolo che invito a leggere.

Poche settimane fa (nel mese di novembre 2018) è stata invece la volta di uno studio dei ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology).

Si sa la ricerca di segnali di vita intelligente nel cosmo è da sempre uno dei motori dell’esplorazione spaziale. Sebbene personalmente come ho già avuto modo di affermare, la ricerca di segnali radio fatta attraverso i sopracitati progetti (dal SETI in poi) dovrebbe essere considerata solo come “fumo negli occhi” dell’opinione pubblica, considerati i limiti teorici e tecnologici di tali progetti, questo tipo di ricerche continuano tuttora. Dalle emissioni radio ai segnali luminosi, i candidati passati in rassegna per stanare possibili civiltà intelligenti extraterrestri sono stati molteplici, fino ad oggi senza successo.

Gli scienziati del MIT hanno provato a ribaltare la questione. Se invece di cercare gli alieni provassimo ad attirare la loro attenzione? Questa proposta è stata avanzata in una nuova ricerca del MIT americano, secondo cui le moderne tecniche laser potrebbero, in linea di principio, essere utilizzate per costruire una sorta di gigante faro sul nostro pianeta, con un fascio di luce talmente potente da riuscire a raggiungere punti molto lontani nell’universo – fino a 20mila anni luce di distanza.

Nell’articolo pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal, gli autori presentano un vero e proprio studio di fattibilità.

Secondo i ricercatori americani, il progetto sarebbe attuabile già con la tecnologia oggi a nostra disposizione. I due elementi principali sono un laser da 1 o 2 megawatt e un telescopio di circa 40 metri attraverso cui far passare la luce del laser. Attraverso questa combinazione, si produrrebbe un fascio di radiazione infrarossa tale da distinguersi dalla luce del nostro Sole. Ciò evidenzierebbe, agli occhi di una civiltà aliena che magari sta guardando proprio nella nostra direzione, come un inequivocabile segno della presenza di un’altra civiltà evoluta.

Non resterebbe dunque che scegliere il punto del cosmo verso cui puntare questo faro terrestre, sperando di intercettare gli strumenti di qualche astronomo alieno. Un buon candidato potrebbe essere il tanto discusso sistema planetario attorno a Trappist-1, una stella a circa 40 anni luce da noi che ospita 7 mondi, 3 dei quali considerati potenzialmente abitabili.

Ma la scienza non riteneva impossibile il contatto alieno?

Stefano Nasetti

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Oumuamua è un veicolo alieno?

Alla fine del 2017 è apparso nel nostro sistema solare un misterioso e gigantesco oggetto a forma di sigaro. Era il primo oggetto interstellare osservato nel nostro sistema solare. La velocità a cui si avvicinava era molto elevata e da subito non lasciò alcun dubbio riguardo la sua provenienza da un altro sistema solare, e che fosse solo di passaggio nel nostro. Molto si è speculato, soprattutto inizialmente sull’origine e la natura di quest’oggetto.

Man mano che si è avvicinato alla Terra, gli astronomi di tutto il mondo, utilizzando i potenti telescopi presenti sul nostro pianeta, hanno potuto costatarne le caratteristiche.

Dapprima Oumuamua è stato classificato come un asteroide, poi come una cometa extrasolare, per buona pace dei molti che avevano speculato sull’apparizione dell’oggetto identificandolo come un veicolo alieno .

Tutto spiegato dunque? Sembra proprio di no!

Se le frettolose valutazioni, effettuate da alcuni spregiudicati “ufologi”, erano a tutti gli effetti delle speculazioni prive di fondamento, poiché basate su pochissimi dati e osservazioni, forse ora si potrebbe dire lo stesso delle successive interpretazioni e spiegazioni fornite dalla comunità scientifica ufficiale.

Grande clamore infatti, ha suscitato lo studio apparso su Arvix, un sito che traccia articoli scientifici prima della peer rewiew e dunque in attesa o in vista della pubblicazione ufficiale su qualche rivista scientifica.

Nello studio in questione, due astronomi del prestigioso Harvard Smithsonian Center of Astrophysics (CfA), analizzando i dati riguardanti la velocità e la traiettoria di Oumuamua, hanno costatato un’insolita traiettoria e un’anomala accelerazione che contravviene quella calcolata con le leggi della meccanica celeste oggi conosciute.

Queste anomalie sono state registrate e poi confermate da diversi telescopi, come il Very Large Telescope. Queste anomalie sono quindi state accertate, sono reali e l’effetto di accelerazione è tuttora presente.

Pur considerando l’interazione con qualche campo magnetico, oppure con qualche altra forza lungo la sua traiettoria, come ad esempio il campo gravitazionale di qualche grande pianeta del nostro sistema solare, tutte le ipotesi sono fallite.

L’interpretazione più verosimile per lo strano comportamento di Oumuamua è un fenomeno chiamato “outgassing”. L’outgassing si verifica quando la radiazione solare scalda la superficie di un oggetto, sciogliendone alcune parti ghiacciate. Queste sublimando, si trasformano rapidamente in gas e, fuoriuscendo dalla superficie dell’oggetto, provocano una lieve spinta propulsiva, come fosse il motore di un razzo. E’ in buona sostanza ciò che comunemente avviene nelle comete. Non a caso è stato osservato dal lander della missione Rossetta che ha fotografato questo fenomeno sulla cometa 67P/ Churyumov-Gerasimenko.

Però, nonostante sia stata classificata come una cometa interstellare, Oumuamua non presenta le caratteristiche tipiche delle comete!

Oumuamua non mostra infatti, la caratteristica lunga coda di materiale evaporato. Non mostra i segni della chioma, il guscio di gas e polveri che circondano le comete. In termini quantitativi, la quantità di gas e polveri rilasciata da Oumuamua è veramente esigua, benché Oumuamua sia effettivamente più piccola delle comete oggi conosciute.

Secondo molti astronomi, la quantità di gas rilasciata sarebbe formata da molecole troppo piccole di gas, per essere visibili dai nostri strumenti. Tuttavia, questa ipotesi è una speculazione scientifica poiché non c’è prova alcuna che questa sia vera o verosimile.

La natura dell’oggetto rimane dunque un mistero.

Nello studio degli astronomi dell’Harvard Smithsonian Center of Astrophysics, si arriva dunque a formulare anche contemplare la possibilità che possa trattarsi di un oggetto alieno artificiale, inviato per esplorare vari sistemi solari, tra cui il nostro.

Una possibilità che richiama quella del celebre progetto Breaktrough Starshot, proposto e supportato da Stephen Hawking che partirà all’esplorazione, nei prossimi decenni, del sistema solare di Alpha Centauri.

Dopotutto, perché se noi oggi siamo (o saremo presto in grado) di esplorare altri sistemi solari, non possiamo supporre che civiltà più avanzate di noi, possano aver fatto o fare, cose simili?

Oumuamua, con i suoi strani comportamenti, è dunque una sorta di sonda spaziale aliena? Molti scienziati (anche della Nasa) hanno suggerito che il miglio modo un per inviare sonde nello spazio profondo, sia quello di sfruttare dei meteoriti per costruirci sopra strutture artificiali, dotate di strumenti di analisi ma anche di macchinari in grado di fruttare le risorse energetiche presenti sul meteorite, per produrre energia per il funzionamento dei sistemi, anche di propulsione. Dalle immagini di cui disponiamo, non abbiamo evidenze della presenza di strutture artificiali. Sebbene non si possa escludere per certo, la possibilità che si tratti di una sonda artificiale (almeno parzialmente) rimane al momento solo un'ipotesi.

Oumuamua è una sorta di "inseminatore" spaziale? Sappiamo per certo che Oumuamua, i suoi strani comportamenti possono essere spiegati in parte con l'ipotesi della cometa extrasolare, formata da ghiaccio e rivestita da una crosta scura di materiale organico. Il suo passaggio ci ha dimostrato per la prima volta che simili oggetti extrasolari possono arrivare vicino al Sole, portando materiale organico da un sistema planetario all'altro. Potremmo quindi pensare che, benchè l'oggetto non appaia artificiale, sia in qualche modo stato volutamente inviato da qualcuno.

D’altro canto, anche noi abbiamo in programma con il Progetto Genesi (annunciato nel settembre2016, ideato dal fisico teorico tedesco Claudius Gros dell’Università di Francoforte e pubblicato sulla rivista Astrophysics and Space Science) di provare a spargere i semi della vita terrestre su altri sistemi solari.

Perché dovremmo escludere la possibilità che civiltà aliene possano aver pensato e attuato progetti simili?

Dopotutto, sia il creazionismo, sia l’abiogenesi rimangono, pur con differenti gradi di attendibilità, ad oggi pur sempre delle ipotesi tutt’altro che confermate e l’ipotesi panspermia sembra sempre più plausibile.

Oumuamua ci sta forse suggerendo che  la vita sulla Terra possa essere aliena ?

Stefano Nasetti

Maggiori informazioni nel libro: Il lato oscuro di Marte - dal mito alla colonizzazione.

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C'è ossigeno su Marte!

Secondo uno studio del California Institute of Technology (Caltech), pubblicato questo mese (ottobre 2018) su "Nature Geoscience", l'ossigeno si trova nell'acqua salata sotto la superficie del pianeta rosso, potrebbe supportare la vita di microorganismi e forme di vita anche più complesse.
Secondo i ricercatori e gran parte della comunità scientifica con questa "scoperta" lo scenario cambia completamente perché aumentano le probabilità che nell'acqua marziana ci siano le condizioni per ospitare microrganismi con un metabolismo basato sull'ossigeno.
Gli scienziati del Caltech autori dello studio, hanno dichiarato: "Anche ai limiti delle incertezze, i nostri risultati suggeriscono che su Marte ci possono essere ambienti in superficie con sufficiente O2 disponibile per far respirare i microbi aerobici”.
La notizia, da prima apparsa solo sulle principali agenzie di stampa, ha poi fatto rapidamente la sua comparsa su giornali e telegiornali.

Le informazioni alla base dello studio erano state già presentate dal team di ricercatori italiani (della sonda europea Mars Express con il radar italiano Marsis) alla rivista Science negli scorsi mesi, La rivista pur pubblicando lo studio, non gli aveva forse dato il giusto risalto che invece la rivista Geoscience ha dato allo studio “fotocopia” del team statunitense del Caltech. Piccole e infantili diatribe tra ricercatori, protezione degli interessi di “bandiera” da parte di Science o cos’altro?

Per come la si giri, la vicenda è abbastanza sintomatica del momento che la “scienza” sta vivendo.

Ad ogni modo la notizia in sé non nulla o poco, di rivoluzionario nonostante invece sia presentata ovunque come tale.

Le evidenze sulla sostenibilità passata e presente della vita su Marte sono note ormai da diversi anni.

Ciò che viene divulgato periodicamente con queste “nuove” scoperte, sono in realtà soltanto dettagli che confermano quanto ormai è già noto in ambito scientifico.
Come scrivevo nel mio post di un paio di settimane fa, e ancor prima nel mio ultimo libro, le evidenze della presenza di forme di vita (non solo elementari) nel passato e nel presente di Marte, sono già conosciute da buona parte della comunità scientifica.

Le notizie di questo tipo che con regolare cadenza sono ormai diffuse, servono soltanto a preparare l'opinione pubblica riguardo l'annuncio, che verosimilmente entro 5-7 anni sarà dato, riguardo il fatto su Marte c'è vita!

Un grande problema se per decenni si è fatto credere all’opinione pubblica di essere soli nell’universo, che la vita sia un evento raro e dunque assai improbabile che si sia ripetuto anche solo nel nostro sistema solare.

Dunque in gioco non c’è soltanto l’idea che Marte ci sia vita o meno, ma è in gioco l’intera sistema d’idee che si basa su convinzioni pseudoscientifiche, come quella dell’unicità della Terra e della vita in essa (ritrattata soltanto dopo la prova incontrovertibile, datata 1995, dell’esistenza di altri pianeti) e del fatto che l’umanità rappresenti qualcosa di speciale (idea fondante di molte religioni).

La lenta preparazione con la pubblicazione quasi cadenzata di studi che reintroducono gradualmente l’idea della vita extraterrestre e della pluralità dei mondi (idea antichissima trattata tra l’altro in modo “moderno” ancorché filosofico addirittura nel 400 a.C. dai greci) serve più che altro a "preservare" l’attendibilità delle autorità scientifiche, soprattutto quelle, che per decenni, hanno sostenuto che Marte fosse un pianeta morto già solo dopo mezzo milione di anni dalla sua formazione.
Si sta sostanzialmente dando tempo ai mestieranti della scienza, affinché gradualmente rivedano pubblicamente le loro posizioni oltranziste, senza che questa inversione di rotta di 180° sia percepita dall'opinione pubblica come una contraddizione, quanto piuttosto come un progresso della conoscenza.
Il punto sta nel fatto che questi pseudo scienziati, ottenebrati dal loro ego, dai loro interessi personali o di categoria, poiché vedevano minacciato il loro ruolo di opinione leader nella divulgazione scientifica da ricercatori indipendenti (e ufologi) che sostenevano ciò che ora si sta palesemente evidenziando sulla vita marziana, hanno sempre denigrato chi, ragionevolmente e con dati alla mano, andava contro l'idea ufficiale e precostituita.

Badate bene, sbaglaire è umano e cambiare idea è sintomo d’intelligenza, ma non lo è farlo a comando e con colpevole ritardo.

Da chi ricopre ruoli importanti come quelli di “guida del sapere scientifico”, ci si aspetterebbe un comportamento di maggiore onestà intellettuale. Ma il problema forse siamo noi, persone comuni che abbiamo aspettative troppo elevate nei confronti di questi signori. Infatti, si tratta pur sempre di uomini e dunque anche chi opera nel settore della scienza, non sfugge alle logiche egoistiche che forse sono proprie dell’essere umano.
Se questa tecnica di preservare la credibilità della categoria è comprensibile sotto un certo punto di vista (ma mai accettabile), ancor più grottesco appare il comportamento dell'opinione pubblica, che invece di valutare le informazioni disponibili per formarsi la propria individuale opinione, continua ad accettare un’idea o un’evidenza solo sulla base della presunta attendibilità di chi la divulga.
Ecco quindi che un'idea (o un'evidenza) bollata fino a qualche tempo fa come folle, diviene improvvisamente reale e scientifica soltanto perché ora a divulgarla sono "autorità" ritenute convenzionalmente "credibili", le stesse autorità che prima ritenevano il tutto assolutamente impossibile e antiscientifico, nonostante le evidenze scientifiche ed oggettive.

Osserveremo quindi nei prossimi anni, le schiere di saputelli illetterati che, confacendosi al nuovo pensiero dominante, si scorderanno di ciò che dicevano prima, non riconsidereranno le loro opinioni sulle persone prima denigrate, ma ricominceranno a denigrare quelli che ancora non avranno cambiato idea a riguardo, così come prima facevano con gli altri quelli di cui ora, improvvisamente, condividono l’idea.

La questione vita su Marte è soltanto un esempio di tante analoghe situazioni che si verificano in altri campi della vita e delle scienze.

Il periodo oscurantista del libero pensiero che stiamo vivendo è anacronistico se pensiamo che grazie alla rete abbiamo la possibilità di accedere ad un numero d’informazioni come mai si è avuto nel passato. Tuttavia le persone continuano a preferire più credere che sapere demandando ciò che devono pensare, dire e di conseguenza, come devono comportarsi, alle volontà di queste “autorità” poco oneste intellettualmente (forse non solo intellettualmente) e molto egoiste.

D’altro canto che la scienza sia “malata” e che siano proprio questi interessi privati e personali, che poco hanno a che fare con la conoscenza ed il progresso, è ormai cosa nota. Una denuncia che è partita negli ultimi tempi dagli stessi membri della comunità scientifica e che è così grave da mettere addirittura in discussione l’oggettività di una buona fetta di “studi scientifici” ufficiali.

Ma tornando nel merito, una buona parte della storia del pianeta Marte è già emersa chiaramente negli ultimi anni. Prenderne coscienza fin da ora (con tutto ciò che ne consegue) o attendere che sia qualche autorità ad ufficializzarla per poi “aderire” comodamente all’idea dominante, è una scelta personale che attiene all’indole o al coraggio di ciascuno di noi.

Stefano Nasetti

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C'è Vita su Marte!

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista UFO INTERNATIONAL MAGAZINE nel numero di Marzo 2021)

C’è vita su Marte!

È questo l’annuncio che ormai si attende e che probabilmente, per tutta una serie di ragioni prettamente politiche a tutela dell’attendibilità e reputazione di alcune autorità scientifiche, sarà data soltanto entro i prossimi 5-7 anni. Ma le prove della passata esistenza di forme di vita sul pianeta rosso ci sono già. Decine di studi, pubblicati sulle principali riviste scientifiche, hanno fornito, sebbene in modo frammentario, evidenza inconfutabile, sgretolando punto per punto, tutte le obiezioni e i punti della ormai quarantennale idea che Marte fosse un pianeta morto, pressoché dalla sua formazione.

Questa idea affermatasi nella comunità scientifica tra la meta degli anni sessanta e quella degli anni settanta del secolo scorso, si basava esclusivamente sui pochi e superficiali dati forniti dalle missioni Mariner e Viking (benché alcuni esperimenti di quest’ultima avessero già fornito evidenza della presenza di forme di vita) costituiti principalmente da immagini fotografiche. Soprattutto quest’ultime ebbero una grande influenza nella formazione dell’idea che Marte fosse un pianeta morto. Infatti, le immagini disponibili all’epoca, sembravano confermare l’idea che il pianeta rosso fosse un pianeta desertico, arido e inospitale.

A distanza di oltre quarant’anni e grazie ai dati raccolti dalle varie missioni di esplorazione degli ultimi vent’anni, come detto, questa idea è sostanzialmente stata del tutto smentita.

La vecchia idea di un Marte inadatto ad ospitare la vita, si basava principalmente su questi presupposti:

  • assenza di segni evidenti di forme di vita;
  • assenza di acqua liquida in superficie;
  • scarsa quantità di acqua disponibile anche sottoforma di ghiaccio;
  • assenza di segni evidenti di attività vulcanica e tettonica “recenti”;
  • assenza di un’atmosfera densa e spessa che potesse proteggere dalle radiazioni solari e dai raggi cosmici;
  • assenza di un campo magnetico sufficientemente forte a trattenere l’atmosfera.

Ciascuno di questi punti sembrava all’apparenza essere confermato dalle immagini raccolte dalle missioni Mariner e Viking.

Quarant’anni fa si pensava che Marte, una volta formatesi, avesse perso rapidamente il suo campo magnetico e la sua attività vulcanica e tettonica. Ciò avrebbe comportato una “rapida” (nell’ordine di un paio di centinaia di migliaia di anni) evaporazione dell’eventuale acqua liquida presente e, complice anche un drastico assottigliamento dell’atmosfera, a sua volta dovuto alla scomparsa del campo magnetico del pianeta. Impatti con altri corpi celesti minori, quali comete ed asteroidi (i cui segni erano e sono ancora visibili) avrebbero di fatto “sterilizzato” il pianeta, rendendolo così come ci appare oggi, appenda 700 milioni di anni dopo la sua formazione, quindi 3,7 miliardi di anni fa!

Negli ultimi quindici anni, ciascuno di questi punti è stato annichilito e cancellato dalle evidenze e dai risultati emersi dagli studi sui dati raccolti al suolo soprattutto dai lander, dai rover ma anche dagli orbiter inviati.

Studi scientifici compiuti dai maggiori centri di ricerca in tema di astronomia e astrobiologia, università e agenzie spaziali di tutto il mondo, hanno confermato che Marte non solo è stato un pianeta caldo ed umido durante molti periodi della sua storia (così come la Terra ha alternato “ere glaciali” a periodi più caldi, umidi e temperati), ma che tali periodi hanno garantito la presenza di grandi quantità di acqua allo stato liquido fino a periodi geologicamente (o addirittura) storicamente più recenti (alcuni studi collocano la presenza di grandi oceani e di acqua allo stato liquido fino a “soli” 200.000 anni fa, quando sulla Terra c’erano i Neanderthal).

Sappiamo che ciò implica necessariamente che il campo magnetico marziano non è dunque scomparso 3,7 miliardi di anni fa come si pensava prima, e che dunque anche l’azione di protezione dalle radiazioni dell’atmosfera marziana si è necessariamente protratta più a lungo di quanto si pensasse.

Abbiamo riscontrato i segni di un’attività vulcanica e tettonica risalente a “soli” 75 milioni di anni fa (per intenderci quanto sulla Terra c’erano i dinosauri.)

Sappiamo che i perclorati presenti nel terreno marziano, le radiazioni cosmiche e i raggi ultravioletti rendono “sterile” e tossico il terreno marziano soltanto nel primo millimetro della superficie.

Sappiamo che Marte ha enormi cavità e tunnel di lava in cui la vita potrebbe essere fiorita o si potrebbe essere rifugiata.

Sappiamo oggi che l’acqua liquida, sebbene in quantità modeste, scorra ancora oggi sul pianeta rosso. Sappiamo che l’acqua sul pianeta è praticamente ovunque, imprigionata appena sotto la superficie, sotto forma di ghiaccio finanche nelle zone equatoriali del pianeta.

I rover che stanno ancora esplorando il pianeta, hanno mostrato i segni lasciati nella sedimentazione delle rocce dall’acqua e da primitive forme di vita. Nei meteoriti marziani giunti sulla Terra abbiamo trovato le medesime tracce.

Sappiamo che nell’atmosfera marziana è presente il metano, la cui quantità varia ciclicamente. Questo gas, secondo la teoria tradizionale ormai obsoleta che vedeva l’assenza di campo magnetico già 3,7 miliardi di anni fa, non dovrebbe essere presente poiché la radiazione solare avrebbe dovuto disgregarne le molecole nel giro di poche migliaia di anni. Oggi si pensa che il metano sia presente non solo perché il campo magnetico marziano non è scomparso così presto, ma che addirittura il metano sia “prodotto” da organismi viventi presenti su Marte, così come il metano terrestre è generato da organismi viventi.

Insomma, tutte queste ricerche hanno dimostrato l’inattendibilità della vecchia “immagine” di Marte come pianeta morto, costringendo a rivalutare anche i risultati degli esperimenti fatti dalle sonde Viking, che avevano dimostrato, sebbene solo parzialmente, la presenza di forme di vita (oggi) sul pianeta rosso.

La consapevolezza di tutto questo cambia radicalmente tutto!

Se oggi sappiamo che Marte è stato, e probabilmente è ancora, ospitale alla vita, perché non prendere in considerazione la possibilità che questa possa essersi evoluta in forme più complesse e magari anche intelligenti?

Nei prossimi 5 o al massimo 7 anni assisteremo certamente all’annuncio ufficiale del ritrovamento della vita su Marte, così come abbiamo assistito nel 2016 a quello del ritrovamento dell’acqua in forma liquida (benché già dal 2004 la Nasa fosse in possesso delle immagini che dimostravano questa realtà).  Se, come detto, le prove di tutto questo sono già state frammentariamente pubblicate, i mass media e tutti coloro che si occupano della divulgazione scientifica non si “sbilanceranno mai” a favore di questa realtà se non dopo che una qualche “autorità” scientifica (Nasa in primis) non “sdoganerà” (per così dire) la cosa. Non abbiamo dubbi al riguardo, poiché è quello a cui abbiamo assistito per l’annuncio del ritrovamento dell’acqua liquida su Marte. Pubblicamente se n’è parlato soltanto dopo l’annuncio della Nasa e non prima, benché i dati ci fossero già.

C’è vita su Marte e le probabilità (o le evidenze) che ci siano, o ce ne siano state anche forme complesse o addirittura intelligenti, sono assolutamente elevate. L’accettazione di ciò che è possibile e di ciò che non lo è, di ciò che è vero e ciò che è falso è, come sempre, determinato dal grado di conoscenza e consapevolezza delle informazioni che ciascuno ha. C’è chi preferisce attendere e credere, senza la “fatica” di formarsi una propria idea, a ciò che viene detto dalle autorità, e chi invece preferisce sapere e farsi la propria idea sulla base delle informazioni ufficiali già disponibili, leggendo e studiando.

Tu da che parte stai?

Stefano Nasetti

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La scienza ha un problema di fake news

(Questo articolo è stato inserito e amplicato nel libro Fact-Checking, la realtà dei fatti, la forza delle idee)

Appena si parla di fake news, la maggioranza della popolazione pensa subito a improbabili teorie complottiste, a bizzarre dichiarazioni di politici al potere o all’opposizione in quel momento, o a informazioni fatte circolare apposta per convogliare traffico su siti internet a scopo commerciale.

È innegabile che esistano anche questo tipo di false informazioni, tuttavia la maggioranza delle false notizie è prodotta e alimentata dallo stesso sistema di potere che spesso sostiene di volerla combattere.

Il mondo della comunicazione, il web in special modo, è ormai invaso da informazioni spesso superficiali e sommarie, condivise da persone che non hanno alcun tipo di preparazione specifica a riguardo (non sto parlando di titoli di studio ovviamente) che si sentono tuttavia in grado di poter sentenziare circa l’attendibilità di un fatto o di un’informazione. I motivi che spingono queste persone a tenere questo comportamento possono essere vari. Alcuni agiscono in buona fede, sebbene colpevolmente incapaci di approfondire o discernere la veridicità dell’informazione. Preferiscono dunque più credere che sapere.

Altri, volendone fare salva la buonafede, sono vittime del proprio ego, della propria presunzione o del proprio istinto di asservirsi o allinearsi alla teoria prevalente o alla versione dei fatti diffusa dalle autorità, che gli impedisce di esaminare in modo critico la notizia in sé.

Tuttavia, quando parliamo di fake news, puntare l’indice verso queste persone appare un esercizio superficiale e semplicistico. Non sono queste le vere fake news dalle quali guardarsi.

Ci sono poi le opinioni e le idee personali che oggi strumentalmente, se non gradite, sono fatte passare per fake news. Ma la libertà di pensiero e di espressione non vanno confuse con le fake news. La possibilità di esprimere la propria opinione personale (non parlo di reati come calunnie e ingiurie) va sempre garantita e tutelata in uno stato che voglia definirsi (o abbia la presunzione di definirsi) democratico.

Le fake news da cui cercare di proteggersi sono quelle che hanno la finalità di ingannare le persone per tutelare un interesse specifico, per raggiungere un obiettivo predeterminato e per trarre un profitto economico o politico.

Quest’ultima categoria di fake news oggi ha un peso rilevante sull’intera comunicazione tradizionale, ciò nonostante ritenuta a torto e paradossalmente, invece la comunicazione più attendibile.

Talune comunicazioni delle Autorità (politiche, scientifiche, ecc), diffuse attraverso i mass media (mainstream) come Tv, giornali e riviste, possono certamente ricadere sotto questa categoria.

Siamo difatto abituati a credere che coloro che ci parlano (autorità politiche, scientifiche, giornalisti, ecc) attraverso questi mezzi, siano persone più preparate e informate di noi, che agiscono per il bene comune e collettivo (nel caso di Autorità politiche o scientifiche) o che cerchino di informare l’opinione pubblica di ciò che sta accadendo. La realtà dei fatti ci dice però che non è quasi mai così. Ciascuno di questi soggetti opera (probabilmente anche, ma non solo, in modo distinto dall’altro e senza alcun coordinamento superiore) con il principale intento di raggiungere il proprio individuale obiettivo.

Quest’attività certamente biasimabile, almeno dal punto di vista morale (se non, in alcuni casi, addirittura civilmente e penalmente e perseguibile) è quella che genera le vere fake news, contribuendo a creare quella “realtà” fittizia e menzognera, in cui gran parte della popolazione non è neanche consapevole di vivere.

Nei precedenti post ho già fatto accenno alle dinamiche riguardanti il funzionamento del sistema d’informazione (quello dei mass media) e di disinformazione (operato dalle autorità), attraverso l’attuazione sistematica, e protratta costantemente nel tempo, di tecniche comunicative ben note e di come queste influenzino la comune percezione anche di concetti apparentemente semplici, come quelli, ad esempio, di cosa sia bene e di cosa sia male, di chi siano i buoni e chi i cattivi.

A farla da padrone nell’orientamento dell’opinione pubblica e nella “creazione” di fake news per la tutela degli interessi privati, sono certamente gli interessi economici ancor prima di quelli politici, sempre più subalterni a questi ultimi.

Questo diffuso sistema d’interessi economici individuali ha ormai contaminato in modo pesante, ogni settore della nostra civiltà, facendo sì che ogni idea, ogni scoperta o innovazione possa minacciare in qualche modo tali interessi, venga osteggiata, sminuita, soppressa o declassata a fake news. Al contempo, lo stesso sistema di potere ha trovato modo di dare riconoscimenti di attendibilità e prestigio a reali fake news.

Anche il settore scientifico ha, nel corso del tempo, risentito di questo sistema di tutela degli interessi privati, perdendo quell’aura di oggettività e di attendibilità che comunemente gli era spesso (non sempre a ragione) riconosciuta.

La scienza, nell'immaginario collettivo, è sovente associata al progresso, all'innovazione. La storia insegna però, come quest'immagine della scienza, non corrisponda poi molto alla verità, non perché la scienza non persegua il sapere o la conoscenza, quanto piuttosto perché è gestita dagli uomini, e non tutti gli uomini hanno l'interesse ha cambiare lo stato delle cose. Quest'atteggiamento ha fatto sì che la scienza tenda a essere estremamente cauta quando si parla di nuove conoscenze o ipotesi, che possono mettere in discussione le teorie tradizionali. Tale comportamento è talmente radicato, che è possibile affermare che la scienza è molto più conservatrice che progressista.

L'altro aspetto che guida la ricerca scientifica oggi, è quello del denaro. Sono ormai pochi o rari, i ricercatori che possono svolgere ricerche per la vera comprensione dell'universo, del nostro posto in esso, delle forze che lo regolano o della vera storia della nostra civiltà. La maggioranza delle ricerche condotte oggi (e che hanno un eco mediatico adeguato) sono quelle riguardanti scoperte e invenzioni che, da lì a breve, potranno portare un qualche ritorno economico.

Non tutti i ricercatori poi sono aggiornati sulle ultime scoperte scientifiche, sia nel loro campo, sia in altri settori della scienza.

L’origine del problema delle fake news scientifiche è, infatti, molto più complessa di quanto si possa immaginare. A minare le fondamenta della credibilità scientifica è un cocktail d’interessi privati, variegati e stratificati, in cui le soluzioni originariamente create a tutela dell’affidabilità e dell’indipendenza scientifica sono divenute esse stesse, amplificatori e strumenti per la disinformazione e la creazione di fake news. Ma andiamo con ordine.

Nella nostra società moderna che basa gran parte della sua organizzazione su scienza e tecnologia, è divenuto molto complesso per ricercatori e scienziati poter emergere. Per comprendere a pieno la questione, dobbiamo innanzitutto mettere da parte il tradizionale, e ormai utopistico, pensiero che ogni scienziato persegua la conoscenza e il benessere dell’umanità prima di qualunque cosa. Non è assolutamente così. Gli scienziati oggi vanno considerati alla stregua di qualunque altro lavoratore, con gli stessi desideri di potere, fama e successo di qualunque altra persona. Anche per loro il primo pensiero è mantenere il proprio lavoro e portare uno stipendio a casa, per soddisfare le proprie necessità, bisogni e desideri.

Nel mondo odierno quindi, l’unico modo per uno scienziato di emergere e acquisire prestigio è cercare di ottenere la pubblicazione sulle riviste scientifiche specializzate, di più paper possibili e ottenere più citazioni possibili da parte dei propri colleghi.   

Nell’ultimo secolo, soprattutto dal secondo dopoguerra, la scienza ha provato a mantenere (o a conquistare) l’immagine di oggettività, imparzialità e quindi di credibilità, attraverso la creazione di un sistema di verifica imparziale delle nuove scoperte e dei nuovi dati, con l’instaurazione del processo chiamato peer-review (revisione paritaria). Il sistema consiste nel far verificare i risultati di un proprio studio da altri colleghi della stessa disciplina in modo da far emergere eventuali errori o incongruenze, con la finalità di garantirne l’attendibilità.

Le riviste scientifiche infatti, inizialmente accettavano di pubblicare uno studio scientifico solo una volta che questo era stato sottoposto a tale processo. La revisione paritaria da parte dei colleghi però, richiede sempre molto tempo, perché il controllo è fatto in modo gratuito e volontario dai colleghi, che si prestano a quest’attività solo nei ritagli di tempo. Oltretutto le riviste scientifiche lucravano (e lucrano tuttora) su tutta questa attività.

La pubblicazione accademica è un'industria redditizia per i player dominanti. Ad esempio il Gruppo RELX Unità di Elsevier, che ha circa 2.500 riviste, tra cui Cell e Lancet , realizzato più di 2 miliardi di sterline (pari a circa 2,6 miliardi di dollari) di fatturato solo nel 2016. L’insieme delle riviste della John Wiley & Sons, che pubblica Cancer, tra gli altri, ha guadagnato $ 853.000 nell'anno fiscale terminato nell'aprile 2017. Il loro modello di business consente margini operativi di circa il 30%. Questi player si procurano contenuti gratuiti basati su ricerche governative o finanziate privatamente, invitano gli accademici a rivedere i documenti gratuitamente, e poi rivendeno il lavoro a biblioteche universitarie e altre istituzioni a prezzi elevati.

Ciò significa escludere una considerevole fetta della comunità scientifica internazionale dai progressi scientifici. Non tutti gli enti governativi e le università infatti, hanno le stesse disponibilità economiche. Gli abbonamenti alle riviste o ai portali scientifici con accesso illimitato ai paper delle ricerche pubblicate, possono costare anche migliaia di dollari l’anno. Quindi non tutti gli istituti di ricerca destinano parte del loro budget per acquistare questi accessi. Per tale motivo ancora oggi, non tutti gli scienziati sono aggiornati sugli ultimi progressi scientifici del proprio settore.

Per ovviare a questo problema, agli inizi degli anni 2000, scienziati e studiosi hanno avviato il movimento per la creazione di portali per le pubblicazioni scientifiche ad accesso aperto, sperando di sfidare ciò che era percepito come un sistema di sfruttamento della ricerca scientifica (quell’appunto dell’editoria scientifica), al fine di apportare benefici al progresso e alla ricerca scientifica globale.

Sci-Hub è uno di questi portali, in grado di garantire la medesima qualità di revisione delle ricerche pubblicate con costi però più contenuti e dunque, pressoché accessibili a tutti. Sci-Hub si è dotato anche di un motore di ricerca interno, che riesce a indicizzare e a rendere disponibile qualunque paper scientifico (o quasi) in anche in modo gratuito.

Nel giugno 2017, l'American Chemical Society (ACS) ha vinto una causa contro Sci-Hub, accusato di fornire accesso illegale a milioni di pagine scientifiche a pagamento. ACS aveva presentato richieste per violazione del copyright, contraffazione del marchio e violazione del marchio. Il tribunale distrettuale della Virginia ha stabilito che Sci-Hub dovrà pagare ad ACS 4.8 milioni di dollari di danni.

All'inizio del 2017, Sci-Hub aveva perso un’altra causa contro la pubblicazione del già citato gigante dell’editoria scientifica Elsevier. In questo caso era stato comminato un risarcimento di 15 milioni di dollari in danni. Ma è improbabile che Sci-Hub pagherà una somma del genere, perché il neuroscienziato Alexandra Elbakyan, il suo fondatore, gestisce il sito dalla Russia, che è al di fuori della giurisdizione del tribunale. Una guerra d’interessi in cui, come vedremo tra poco, a rimetterci è l’attendibilità della scienza.

Queste sono solo gli ultimi sviluppi di una battaglia che va avanti da anni per lucrare sulla pubblicazione degli studi scientifici, tra chi li vorrebbe venderli a peso d’oro, e chi invece vorrebbe renderli accessibili a tutti.

Nel frattempo infatti, gli scienziati continuavano ad avere necessità di pubblicare in fretta i risultati delle proprie ricerche, e si trovavano sempre più costretti a sottostare ai diktat delle riviste scientifiche.

Tale situazione ha generato un ulteriore problema in ambito scientifico, quello della cosiddetta “crisi di riproducibilità”, vale a dire la presa di coscienza da parte della comunità scientifica dell’impossibilità di ripetere molti dei risultati pubblicati sulle riviste di settore. Un problema non da poco, che mette in crisi uno dei capisaldi della scienza moderna: la sua oggettività, garantita appunto (almeno a livello teorico) dalla possibilità di ripetere e verificare in ogni momento, i risultati di un esperimento.

Come dicevo, ciò è stato generato dalla cosiddetta publication bias, cioè la tendenza delle riviste scientifiche a pubblicare più facilmente i risultati positivi rispetto a quelli negativi. Pensiamo ad esempio, a uno studio che valuta l’efficacia di unna nuova terapia.

In un mondo ideale, la ricerca dovrebbe avere le stesse probabilità di essere pubblicata su un’importante rivista medica o più in generale scientifica, a prescindere dai risultati ottenuti. Anche perché un esito negativo (che dimostri cioè l’inefficacia di un nuovo trattamento) ha la stessa rilevanza scientifica di uno positivo, se non addirittura un’importanza maggiore, visto che indica l’inutilità della nuova terapia.

Nella realtà invece, le cose sono molto diverse: pubblicare risultati negativi è estremamente difficile. E questo influenza inevitabilmente alcuni ricercatori (la cui carriera spesso dipende dalla capacità di pubblicare continuamente nuovi studi), spingendo a ritoccare (più o meno volontariamente) i risultati, o ad abbandonare velocemente le ricerche che non hanno esito positivo, senza neanche tentare la strada della pubblicazione.

L’altro problema creato sempre dai canoni imposti dalle riviste specializzate è “l’hidden outcome switching”, ovvero la tendenza a cambiare l’obiettivo di uno studio dopo averlo portato a termine. Scienziati e ricercatori, schiacciati dalla logica del publish or perish (letteralmente pubblica o muori, una formula che indica la necessità di pubblicare a ritmo sostenuto per mantenere una posizione prestigiosa a livello universitario), molti ricercatori possono cedere però alla tentazione di ritoccare i risultati, cambiando in corso l’obiettivo di uno studio per garantire un risultato positivo, e quindi più facile da pubblicare. E proprio da atteggiamenti di questo tipo, ritocchi dei dati o dei protocolli sperimentali per facilitare la pubblicazione del proprio studio, nasce la crisi di riproducibilità.

Per sottrarsi a tale logica, molti ricercatori hanno cominciato a rivolgersi a riviste meno “esigenti”, le cosiddette riviste ad “accesso aperto”, nate per soddisfare le esigenze dei ricercatori. Infatti, mentre riviste scientifiche tradizionali fanno soldi con l'addebito delle tariffe di abbonamento a chi vuole accedere ai contenuti, le riviste ad accesso aperto spesso ribaltano questo modello, addebitando le tariffe degli autori, offrendo gratuitamente articoli ai lettori. Queste riviste scientifiche quindi pubblicano i risultati di studi scientifici dietro pagamento di un corrispettivo in denaro da parte degli autori. Pubblicare una ricerca scientifica diventa un po’ come acquistare uno spazio pubblicitario.

Nonostante queste riviste si definiscano scientifiche, da molti sono state definite “predatorie”, poiché sembrano pubblicare qualsiasi ricerca gli sia sottoposta, senza curarsi di processi di revisione paritaria. Nei casi ove questa è ufficialmente presente, viene “stranamente” portata a termine in tempi rapidissimi (1 o 2 settimane). Secondo molti, l’anomala velocità della peer-review a cui sono sottoposti questi studi, accettati dietro pagamento di un compenso da parte degli autori, mette in dubbio l’attendibilità degli studi stessi.

Secondo molti si tratta di vere e proprie fake news scientifiche che, poichè pubblicate su riviste considerate (o che si autodefiniscono) scientifiche, sono tuttavia considerate valide nonostante le perplessità riguardanti il processo di revisione e pubblicazione.

Basti pensare che lo scorso anno una ricerca scientifica volutamente assurda, che aveva per oggetto i “Midichlorian” di Star Wars (immaginari organismi simbionti che nel film erano i responsabili della “Forza”), è stata accettata e pubblicata da 4 delle 9 riviste scientifiche alle quali era stato proposto!

Ben tre riviste hanno pubblicato immediatamente la bufala. L’American Journal of Medical and Biological Research, dell'editore solo online SciE Pub (e che pubblicizza nella sua home page "il più alto standard di peer review") prima di pubblicare l'articolo richiedeva un pagamento anticipato di 630 dollari. Un altro degli editori, che ha accettato la pubblicazione senza neppure leggere l'articolo, è l’indiano MedCrave.

Non tutto ciò che è pubblicato nelle riviste predatorie è spazzatura. Ma la mescolanza della "cattiva scienza" con quella "buona" riduce il valore e la credibilità di tutti i risultati.

Sebbene non si possa affermare che tutte le ricerche pubblicate da queste riviste siano fake news scientifiche, la percentuale di quest’ultime è molto elevata, e dipende soprattutto dagli interessi che si celano dietro ad uno studio piuttosto che a un altro.

Gli interessi che girano attorno a queste ricerche, sono enormi, e non coinvolgono solo gli autori della ricerca (interessati a tenere elevato il numero delle proprie pubblicazioni scientifiche) o delle case editrici interessate a incassare il compenso pattuito per la pubblicazione.

Uno studio del 2015 sulla rivista BMC Medicine ha stimato i ricavi generati dal mercato dei predatori ad accesso aperto a 74 milioni di dollari, rispetto ai 244 milioni di dollari di altre rinomate riviste ad accesso apert,o e ai 10,5 miliardi di dollari che le riviste tradizionali fanno con gli abbonamenti globali. Secondo lo studio, si stima che almeno il 25% delle riviste ad accesso aperto possa essere classificato come predatorie.

Il fallace sistema che era nato con il nobile scopo di rendere i risultati della ricerca scientifica più liberi e accessibili a tutti in modo gratuito, è invece diventato uno strumento nelle mani dei grandi gruppi farmaceutici e delle lobby di potere, interessate a favorire la vendita di nuovi prodotti e/o a ostacolare il progresso scientifico per il mantenimento dello status quo.

Nel corso dell'ultimo anno, un team di giornalisti tedeschi ha condotto un'indagine sotto copertura riguardante una vasta rete sotterranea di riviste scientifici e conferenze fake per promuoverne i dati pubblicati.

Il team ha analizzato oltre 175.000 paper pubblicati queste “riviste predatorie”.  Nel corso dell’indagine (raccontata poi nel documentario ”Inside the Fake Science Factory”), i ricercatori hanno scoperto centinaia di articoli, prodotti da accademici di istituzioni leader nel loro settore, oltre a una notevole quantità di ricerche finanziate da aziende farmaceutiche, produttori di tabacco e altre aziende. L'anno scorso, si stima che una falsa istituzione scientifica gestita da una famiglia turca, abbia guadagnato oltre 4 milioni di dollari (3,5 milioni di euro) organizzando conferenze e pubblicando finte ricerche sulle riviste predatorie di sua proprietà.

L’organizzazione World Academy of Science, Engineering and Technology (WASET) (che sul suo sito ha un elenco sterminato di conferenze organizzate in tutto il mondo riguardanti quasi tutte le discipline accademiche immaginabili in programma addirittura fino al 2031) in collaborazione con la OMICS Publishing Group, probabilmente il maggiore editore predatorio al mondo sono i soggetti su cui si sono concentrate le indagini dei giornalisti tedeschi.

Spulciando nei siti di OMICS e WASET, hanno scoperto decine di migliaia di abstract per paper scientifici fake, quasi 15.000 di questi abstract provenivano dall’India, ma gli studi provenienti dagli Stati Uniti sono la seconda voce più numerosa, con circa 10.000 paper sottoposti a OMICS e altri 3.000 ai journal di WASET.

Un numero preoccupante di questi accademici proviene anche da università americane d'élite. Eckert, uno dei principali artefici di questa indagine, assieme ai suoi colleghi ha scoperto 162 paper presentati a riviste WASET e OMICS provenienti da Stanford, 153 da Yale, 96 dalla Colombia e 94 da Harvard negli ultimi dieci anni. Eppure, secondo Krause, un altro dei giornalisti tedeschi, ”la portata del fenomeno si estende ben oltre il mondo accademico.”

Come illustrato da Eckert e dai suoi colleghi, il sistema della pubblicazione di falsi studi sulle riviste predatorie sono utilizzate per pubblicare studi e ospitare conferenze finanziate anche da grandi aziende, tra cui la produttrice di tabacco Philip Morris, l'azienda farmaceutica AstraZeneca e l'azienda per la sicurezza nucleare Framatone. Quando le riviste predatorie pubblicano le ricerche di queste aziende, queste possono affermare che si trattano di studi sottoposti a “peer review" e quindi conferirgli un'aria di legittimità.

Infatti, nonostante queste evidenti dubbi riguardo l’operato delle riviste predatorie, Bloomberg Businessweek ha scoperto che i ricercatori delle principali case farmaceutiche, tra cui AstraZeneca, Bristol-Myers Squibb, Gilead Sciences, e Merck, presentano studi alle riviste di Omics per la pubblicazione, e partecipano alle loro conferenze. Pfizer, il più grande produttore di farmaci degli Stati Uniti, ha pubblicato almeno 23 articoli dal 2011 sulle riviste OMICS.

Dalle indagini sopra esposte, non è emerso in modo chiaro se le case farmaceutiche stiano ignorando intenzionalmente ciò che sanno della reputazione di Omics (ma non è difficile da credere), o se siano genuinamente confusi tra la profusione di riviste non credibili. Tuttavia nessuna delle aziende citate è stata disposta a fornire spiegazioni, dopo la pubblicazione dei risultati di queste indagini giornalistiche.

Il dubbio che utilizzino strumentalmente queste riviste, pagando per far pubblicare studi fake da cui trarre vantaggio per vendere farmaci inefficaci, è elevato.

Come detto, infatti, mentre gli accademici pubblicano per mantenere o acquisire prestigio per le loro carriere, le aziende farmaceutiche hanno invece la necessità di comunicare con i medici. Pubblicazioni di alto livello come il Il New England Journal of Medicine e il Lancet, garantiscono un elevato grado di visibilità e influenza. Tuttavia, pubblicazioni su riviste con standard più bassi come quelli di Omics, offrono alle aziende la possibilità di pubblicare studi che non sono sufficientemente innovativi per le riviste principali o per coloro che preferirebbero non essere soggetti a rigorosi controlli, sia per farli uscire prima, sia per evitare i controlli.

Tanto per citare un esempio, un documento Pfizer sul carico finanziario della lombalgia cronica, pubblicato nel 2014 su Omics Journal of Pain & Relief, suggerisce che l'azienda farmaceutica potrebbe aver avuto interesse a saltare i processi di revisione delle riviste tradizionali. Sulla base di un sondaggio di appena 106 persone, nello studio la Pfizer ha concluso che i costi diretti e indiretti di forti dolori alla schiena variavano da $ 11.800 a $ 25.051 per paziente all'anno. Tali cifre potrebbero essere utilizzate per giustificare il prezzo di un farmaco per i pazienti e i loro piani sanitari. Il New England Journal of Medicine, ad esempio, pubblica raramente studi sui costi, perché sono notoriamente inaffidabili. "È molto semplice portare i risultati alla conclusione che si desidera", afferma John Ioannidis, professore di medicina, scienza dei dati biomedici e statistica a Stanford. Il documento Pfizer era "non molto trasparente, quindi è difficile vedere se i loro calcoli sono accurati." "Le persone possono essere danneggiate perché dipendiamo da ciò che leggiamo nelle riviste mediche per guidare l'assistenza ai pazienti”.

AstraZeneca Plc, il secondo più grande produttore di farmaci negli Stati Uniti, ha pubblicato almeno cinque articoli sui giornali di Omics dal 2011, incluso uno in Medicina interna: accesso aperto a un farmaco sviluppato con Bristol-Myers Squibb Co. chiamato Farxiga, che regola i livelli di zucchero nel sangue. Lo studio ha rilevato che Farxiga offriva un controllo del peso superiore rispetto ad altri regimi di diabete. Questi risultati - sebbene forse validi - non sono stati controllati dalla Food and Drug Administration degli Stati Uniti, quindi non è un reclamo che può essere fatto sull'etichetta o nella pubblicità. Tuttavia, i medici che s’imbattono in questo studio, potrebbero presumere che sia stato rigorosamente sottoposto a revisione paritetica, ed essere influenzati a prescrivere Farxiga rispetto a un farmaco concorrente. Gli editori della rivista non hanno risposto alle richieste di specificare chi o se qualcuno avesse revisionato lo studio su Farxiga.

Nel migliore dei casi, qualora volessimo propendere per la buonafede (ma esiste ancora in questo mondo?) le aziende hanno fretta e sono disposte ad accettare di pubblicare su riviste di livello inferiore. Questo perché vogliono che lo studio, anche se non verificato e quindi attendibile, abbia una citazione. Vogliono che qualcuno sia in grado di farvi riferimento e farlo “diventare ufficiale”.

In questo quadro, pensare che tutti i principali colossi della farmaceutica siano in buona fede (considerando anche il curriculum non immacolato di alcune di esse) è difficile da poter sostenere. Soprattutto se consideriamo che tutti i produttori di farmaci hanno alimentato l'ascesa di soggetti predatori come Omics, anche sponsorizzando e partecipando a conferenze. le sponsorizzazioni ricevute dalle case farmaceutiche generano il 60% delle entrate di Omics. Da fotografie diffuse dalla stessa Omics, scattate alle conferenze a partire dal 2010, come sponsor sugli schermi dietro gli altoparlanti figurano i nomi di Novartis, Axis Clinicals e Agilent Technologies Novartis, Merck, Eli Lilly, e la ormai celebre produttrice di vaccini GlaxoSmithKline.

Insomma, risulta che le principali e vere fake news dalle quali guardarsi, siano generate dallo stesso mondo scientifico accademico e dalle stesse lobby di potere, spesso colluse con la politica, che poi dichiara di voler fare guerra alle fake news.

Le indagini qui esposte e che hanno avuto come oggetto principalmente il mondo della medicina, sono estendibili a tutti gli altri campi della scienza, dall’astronomia all’elettronica, dalla fisica all’archeologia, passando per ogni altra disciplina. Questo perché gli interessi personali (dei ricercatori) o dei gruppi di potere, sono presenti in ogni settore e ciò accade da sempre, non solo ora. Alcune assurde teorie considerate scientifiche, benché prive di prove oggettive e inconfutabili (come ad esempio nel caso dell’evoluzione darwiniana), elaborate secoli fa, continuano a sopravvivere così come le conosciamo, solo perché sostenute dal potere dominante.

“Viviamo in un’epoca di continue contrapposizioni. La facilità di accesso alle informazioni se da un lato ha consentito la diffusione della conoscenza, stimolando la riflessione e la formulazione del libero pensiero, dall’altro ha amplificato anche la disinformazione. Se da un lato quindi, abbiamo oggi la possibilità di avanzare una critica intellettualmente onesta delle versioni ufficiali della storia che vengono proposte, dall’altro l’eccesso di controinformazione è divenuto esso stesso una disinformazione, perché spesso guidato non da una sana e onesta ricerca della verità, quanto invece dalla smania di andare strumentalmente contro.

Il processo sopra sommariamente riassunto, ha causato un’elevata contrapposizione tra chi oggi si schiera in difesa delle tradizionali teorie dominanti, per la conservazione dello status quo, e chi invece propone un’analisi critica delle stesse, alla luce delle nuove conoscenze.

Schierarsi dall’una o dall’altra parte in modo preconcetto, è sempre sbagliato.

Le teorie ufficiali non sono necessariamente vere o necessariamente false, solo perché sono le versioni proposte da una qualche autorità, scientifica, religiosa o politica che sia. Al contempo, il medesimo discorso si può fare per le cosiddette ipotesi alternative. Quest’ultime non sono necessariamente false solo perché sono formulate da chi non ha la stessa autorità, benché abbia invece, in alcuni casi, maggiore autorevolezza, né necessariamente vere solo perché sono contro le teorie tradizionali.”

La lotta per contrastare le fake news, comprese quelle scientifiche, non passa per l’attendibilità della fonte o dell’autorità che ne sostiene meno la correttezza, ma dalla valutazione della notizia in sé, cercando di acquisire il più alto numero d’informazioni per poi confrontarle e valutarle.

Se la scienza vorrà riacquistare quell’aura di oggettività che in passato gli era riconosciuta, dovrà passare necessariamente per la massima trasparenza, sempre e comunque. Chi si rifiuta di fornire spiegazioni o dati oggettivi coerenti con ciò che afferma o che tenta di sviare, facendo ricorso al proprio potere per imporre una la sua verità, sta certamente nascondendo una fake news.

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Stefano Nasetti

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Fonti:

https://www.bloomberg.com/news/features/2017-08-29/medical-journals-have-a-fake-news-problem

https://motherboard.vice.com/it/article/3ky45y/centinaia-di-ricerche-di-harvard-yale-e-stanford-sono-state-pubblicate-su-riviste-accademiche-fake

https://motherboard.vice.com/it/article/8xajk5/un-paper-sui-microbi-della-forza-di-star-wars-e-finito-su-4-riviste-scientifiche

https://www.wired.it/scienza/lab/2017/08/25/registered-report-nuovo-studio-scientifico/

https://www.sciencemag.org/news/2017/11/court-demands-search-engines-and-internet-service-providers-block-sci-hub

 

 

 

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Le prove di un nuovo programma spaziale segreto sugli UFO

Un'immagine dell'UFO avvistato dai militari nel 2004 (Clicca sull'immagine per il video)

Lo scorso dicembre, il New York Times ha pubblicato le evidenze documentali dell’esistenza di un programma segreto del Dipartimento della Difesa americano da 22 miliardi di dollari, che ha indagato sulle segnalazioni di oggetti volanti non identificati per circa un decennio.

Funzionari del programma, iniziato nel 2007,hanno molti studiato video di incontri tra oggetti sconosciuti e aerei militari americani.  Tra i report analizzati nell’ambito dell’Advance Aerospace Threat Identification Program, questo il nome del programma segreto, c'era un video che è stato pubblicato qualche mese fa, nell’ambito del FOIA (Freedom Of Information Act). Il video che risale al 2004, raffigura un oggetto bianco e ovale delle dimensioni di un aereo commerciale, inseguito da due caccia F/A-18F decollati dalla portaerei Nimitz, al largo della costa di San Diego, in California.

Nell’intervita rilasciata al New York Times il pilota in pensione David Fravor, che stava pilotando uno dei caccia quel giorno ha spiegato che: "Non aveva mai visto niente decollare così. Un minuto era qui, e quello dopo era sparito". L’oggetto si muoveva ad alte velocità e, apparentemente, non aveva alcun mezzo di propulsione.

Recentemente un team di giornalisti di Las Vegas, coordinati dal noto giornalista esperto del fenomeno UFO George Knapp, è riuscito ad ottenere un documento13 pagine [PDF] preparato dai militari, che analizza ciò che è successo quel giorno nel 2004.

Nel rapporto si legge di come l'AAV (Anomalous Aerial Vehicle) avvistato dai due piloti di F18 fosse riuscito a ”discendere molto rapidamente” da un'altezza di circa 60.000 piedi fino a circa 50 piedi nel giro di pochi secondi. Inoltre, ”si librava o manteneva una posizione stabile sul radar per un breve periodo di tempo per poi allontanarsi ad alta velocità e con velocità di rotazione elevate”.

La relazione illustra nel dettaglio anche altre caratteristiche osservate nell’oggetto volante non identificato che, tra le altre cose, era stato avvistato da un'altra portaerei al largo della costa californiana già ”in tre occasioni diverse” nei giorni immediatamente precedenti la sua intercettazione da parte degli F18, come si evince dal video.

Secondo quanto riportato dai militari, l'aereo era capace di "accelerazioni estreme, capacità aerodinamiche e propulsione” e non appariva sui radar dei militari, e ”aveva dimostrato la capacità di 'mascheramento' o diventare invisibile all'occhio umano o all'osservazione umana” e ”possibilmente dimostrava una capacità molto avanzata di operare sott'acqua completamente non rilevabile dai nostri sensori più avanzati"

Il rapporto si legge come uno dei membri di alto livello dell'equipaggio, presente sulla portaerei con 17 anni di esperienza nel settore militare, avesse rilevato che l'AAV mostrava le caratteristiche di un missile balistico. Infatti, il motivo per cui il sistema radar della portaerei non era riuscito a localizzare l'oggetto, era che il radar era stato impostato per il monitoraggio degli aeromobili convenzionali, per cui quando l'oggetto è apparso sul radar è stato rilevato come un bersaglio falso. Secondo il report, ”Se il radar fosse stato configurato in una modalità per il tracciamento dei missili balistici, probabilmente avrebbe avuto la capacità di tracciare il valore AAV

Secondo il rapporto, uno dei piloti inviati per indagare sull'oggetto segnalato, ha riportato di avere avvistato un qualcosa di anomalo nell'oceano calmo. Il pilota ha riferito che il ”disturbo sembrava avere 50-100 metri di diametro e di forma circolare” e che gli ricordava “qualcosa che si sommergeva rapidamente sotto la superficie come un sottomarino o una nave che affondava.”

Tuttavia ”È possibile che il disturbo sia stato causato da un AAV, ma che l'AAV sia stato ”coperto” o risultasse invisibile all'occhio umano,” conclude il rapporto. ”In nessun momento, l'AAV è stato considerato come una minaccia per il gruppo tattico. Infine, non avevano mai visto nulla di simile né prima né dopo”.

Alcuni dei militari coinvolti giurano che ciò che avevano visto fosse di origine extraterrestre.

Stefano Nasetti

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Marte: la Nasa mente!

 

 Da decenni esistono teorie secondo le quali la Nasa mentirebbe su qualsiasi cosa, dai finti allunaggi delle missioni Apollo, ai filmati della Stazione Spaziale internazionale. Esistono molti ricercatori che hanno fornito indizi o prove apparentemente convincenti a conferma di questa tesi. Negli ultimi anni però, il vero fulcro dell’attenzione mediatica riguardo alle presunte bugie della Nasa, si è concentrata soprattutto su quello che è divenuto il principale obiettivo di tutte le agenzie spaziali, nonché delle principali missioni spaziali cioè Marte.

Da oltre vent’anni la Nasa diffonde quotidianamente dai propri siti, le fotografie inviate dalle numerose sonde (orbiter, lander e rover) giunte sul pianeta rosso.

Moltissime delle foto pubblicate, benché palesemente ridotte di qualità, evidenziano tracce di possibili forme di vita, passata e presente. Spesso i ricercatori rielaborano le foto, aumentando o diminuendo i contrasti, migliorando la messa a fuoco nel tentativo di “ripristinare” qualitativamente le condizioni originarie delle fotografie. Ma ciò presta il fianco alla difesa di chi sostiene che la Nasa non nasconderebbe nulla perchè nelle foto originali e non "rielaborate", non ci sarebbe nulla che faccia realmente pensare a forme di vita o alla presenza di civiltà passate sul pianeta rosso. Per tutte queste persone, le foto mostrano semplicemente delle rocce che, sebbene abbiano una forma bizzarra, rimangono rocce.

L’idea di un Marte inospitale e inadatto alla vita è radicalmente cambiata negli ultimi anni presso la comunità scientifica ufficiale, nonostante ancora pubblicamente si continui a propagandare la vecchia visione del pianeta rosso. La nuova visione di Marte, non pregiudica la possibilità paventata da tutti questi ricercatori alternativi, ma sebrerebbe addirittura dargli maggiore credibilità.

La questione merita certamente un serio approfondimento che sarà al centro del mio lavoro editoriale di prossima pubblicazione. Questo perché per farsi una propria idea sulla vicenda Marte, non è sufficiente fermarsi alle apparenze o alle dichiarazioni ufficiali, ma è necessario approfondire andando a verificare gli studi scientifici pubblicati sulla base dei dati forniti dalle sonde inviate sul pianeta rosso.

Nel frattempo però, quando ci si imbatte in determinate fotografie ufficiali, non è possibile sottrarsi dal cominciare a farsi una propria idea, ponendosi, come al solito, le opportune domande.

Risalendo alle foto originali pubblicate sul sito della Nasa e osservando le foto “originali” (senza cioè alcuna rielaborazione) ciascuno può farsi la propria idea riguardo al fatto che ciò che è ritratto in molte di esse, siano realmente semplici rocce o invece tracce o resti di civiltà passate o forme di vita ancora oggi presenti.

Purtroppo finché questi oggetti si trovano al suolo, risultano interpretabili (non sempre ovviamente).

Questa volta però, l’oggetto sconosciuto ritratto non si trova nella sabbia o tra le rocce, ma nel cielo!

Le fotografie scattate dal rover Curiosity il 20 gennaio 2018, sono presenti a questo link che rimanda al sito della Nasa. Si tratta di foto scattate in sequenza in cui si vede un oggetto volante o una creatura volante, che si sposta orizzontalmente nel cielo di fronte al rover.

Non è la prima volta che nelle foto di Marte pubblicate dalla Nasa, vengono notati oggetti nel cielo. Negli altri casi però, gli oggetti erano molto piccoli e apparentemente lontani, tanto da far ritenere in alcuni casi, che si potesse essere trattato di semplici granelli di polvere sull’obiettivo della telecamera. Questa volta invece, l’oggetto è molto più grande, ha una forma ben definita e non si trova sull’obiettivo della fotocamera.

Al momento su Marte non volano droni (i primi droni voleranno su Marte non prima del 2020) e dalla superficie marziana, così come accade sulla Terra, non è possibile scorgere i vari orbiter inviati in questi anni, che fotografano Marte dall’alto. Dunque cos’è ciò che vediamo ritratto nella foto che vola nel cielo di fronte al rover Curiosity?

Le possibilità sono due: o su Marte ci sono forme di vita, o le immagini “marziane” pubblicate dalla Nasa sono un falso, poiché scattate sulla Terra e non sul pianeta rosso. Comunque la si voglia pensare (ciascuno sceglierà la propria versione) la conclusione, in attesa di eventuale e coerenti spiegazioni ufficiali, al momento appare una sola: la Nasa mente su ciò che realmente sappiamo su Marte!

Stefano Nasetti

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Tracce di un'antica globalizzazione

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista ARCHEO MISTERI MAGAZINE nel numero di Maggio 2021)

Viviamo in un modo globalizzato in cui per noi è ormai abbastanza semplice comunicare con ogni luogo della Terra. Con altrettanta facilità siamo in grado di spostarci sull’intera superficie del globo.

Ma se per noi abitanti del XXI secolo, tutto questo è quasi scontato, non lo era per le antiche civiltà del passato, “confinate” in una limitata e circoscritta area geografica, almeno fino alla fine del XV secolo, quando Colombo nel 1492, mettendo piede nel centro America, diede inizio all’epoca delle grandi esplorazioni e al primo contatto tra il mondo europeo, medio-orientale e le Americhe.Questo almeno, è quello che ci dice la storia ufficiale. Ma è realmente così?

Esistono prove tangibili che possono far supporre che alcune civiltà già nel passato, possano aver compiuto traversate oceaniche per colonizzare nuove terre o intrattenere rapporti commerciali con altre popolazioni indigene lontane?

Sappiamo con certezza che viaggi in America erano stati fatti già secoli prima da cavalieri templari e vichinghi. Ne sono state trovate inequivocabili tracce nel continente Nord americano. Su questo ormai anche gli storici tradizionali concordano. Tuttavia, nel corso degli ultimi anni, sono emerse altri indizi che ci possono far supporre che questi collegamenti o contatti tra antiche civiltà, fossero presenti ancor prima.

Esiste infatti, un’ampia casistica di analogie costruttive, iconografiche ed anche mitologiche, che fanno supporre che molte antiche civiltà dell’area mesopotamica e del bacino mediterraneo, fossero in contatto o avessero una “matrice” ovvero origine culturale comune alle civiltà del centro America. La storia ufficiale però non considera queste analogie come prova di un possibile contatto, spiegandole come semplici coincidenze. Ma siamo sicuri che la storia ufficiale sia corretta? Ci sono elementi più tangibili che possono far supporre che sia la versione della storia ufficiale ad essere sbagliata? Quali sono gli elementi che sono emersi in questi anni e che possono confermare l’esistenza di contatti tra civiltà passate o tentativi di esplorare il globo da parte di alcune di esse?

Esistono certamente elementi che vanno oltre la semplice possibilità che si tratti di analogie casuali. Ad esempio, così come gli egizi, alcune culture sudamericane utilizzavano un processo di mummificazione per la conservazione dei corpi dei defunti.

Un altro indizio sconcertante, riguardo un possibile contatto già in un remoto passato tra culture distanti migliaia di chilometri, fu portato alla luce dalla ricercatrice tedesca Balabanova. L’archeologa scoprì che le mummie egizie contenevano nicotina e cocaina, sostanze originarie del Sudamerica, che non potevano essere presenti, secondo la scienza ufficiale, in Africa e in Europa prima di Colombo. L’indagine fu ripetuta su moltissime mummie ed è stata confermata sopra ogni dubbio.

Sembra dunque che già la civiltà egizia abbia attraversato l’oceano Atlantico, e non solo. È probabilmente che gli egizi abbiano attraversato anche il Pacifico dal momento che in Australia sono state ritrovate strutture piramidali ( ma questo è ormai un qualcosa che stiamo scoprendo essere presente in tutto il globo) e addirittura dei geroglifici.

I geroglifici sono stati ritrovati nel 1900, nel Parco Nazionale di Brisbane Water e, secondo diversi archeologi e ricercatori, questi geroglifici risalirebbero alle prime dinastie egizie. Gli scribi che hanno creato queste incisioni lo avrebbero fatto con estrema precisione, e avrebbero adottato anche alcune variazioni “grammaticali” che non erano nemmeno presenti in testi geroglifici egizi fino al 2012. Ovviamente trattandosi di una scoperta potenzialmente rivoluzionaria, non mancano i pareri e le opinioni di altri egittologi che invece sostengono si tratti di un falso. Tuttavia in Australia, oltre alle citate strutture piramidali, sono state ritrovate anche diverse statuine raffiguranti scarabei oltre ad una statua che ricorda un babbuino, creatura sconosciuta in Australia. Certamente, se i geroglifici fossero veri, sarebbe la prova inequivocabile che le antiche popolazioni erano in grado di spostarsi per l’intero globo.

Ci sono evidenze poi, che questo fenomeno abbia riguardato anche altri popoli oltre agli egizi. Risulta infatti, che ci siano anche altri luoghi nel mondo in cui sono state ritrovate scritture proprie di civiltà distanti migliaia di chilometri.

Nella seconda metà del secolo scorso, nella località di Chua, a 70 chilometri da La Paz, presso il lago Titicaca, venne ritrovato da alcuni agricoltori, un reperto archeologico che ancora oggi fa discutere in quanto ritenuto da molti un Oopart. Il reperto oggi noto con il nome di Fuente Magna, è rimasto dimenticato e non studiato nei magazzini del museo archeologico della cittadina boliviana per oltre 25 anni. Soltanto nel 1995, durante le operazioni d’inventario di tutti i reperti esposti e non, presenti nella piccola struttura museale, rispuntò fuori il reperto, attirando la curiosità degli addetti ai lavori.

Il Fuente Magna è sostanzialmente un vaso, molto simile ad una enorme ciotola, su cui sono presenti bassorilievi zoomorfi nella parte esterna, e una serie di scritture e incisioni nella parte interna, accompagnate quest’ultime, da una solitaria figura zoomorfa.Il vaso è stato datato e risulta risalire al 3.500 a.C. Questa datazione assai più antica di quella riguardante le varie civiltà sudamericane (secondo la storia e l’archeologia ufficiale, la regione boliviana non conobbe forme di civiltà evolute fino alla seconda metà del secondo millennio a.C., periodo al quale viene fatta risalire la prima fase di costruzione della città di Tiahuanaco nel 1.200 a.C. circa), risulta ancora più particolare se si tiene conto che, parte delle iscrizioni presenti nella parte interna del manufatto, sono scritte con caratteri sumerici o proto sumerici. L’identificazione univoca di questo tipo di scrittura è stata eseguita da archeologi tradizionali, quindi in questo caso non c’è alcun dubbio sull’autenticità della scrittura, mentre si potrebbe eventualmente discutere su come questo reperto di fattezze sumere, possa essere arrivato lì.

Nel 1960 poi, nel sito di Pokotia, a circa 2 chilometri dalla città di pietra di Tiahuanaco,in Perù è stata ritrovato un monolite in pietra di fattezze antropomorfe, alta circa 170 cm che riporta iscrizioni nella stessa lingua (proto sumerica) presente sul Fuente Magna. Sembra quindi che, ancor prima degli egizi, anche i Sumeri fossero riusciti, forse casualmente, ad attraversare l’Atlantico.

La teoria della scoperta occasionale sembra supportata dal fatto che i popoli antichi, in questo caso i Sumeri, erano buoni naviganti e potrebbero aver circumnavigato l’Africa partendo dal Mar Rosso e dirigendosi inizialmente verso il Capo di Buona Speranza.

Una volta giunti presso le isole di Capo Verde però, i venti contrari (ovvero gli alisei), li avrebbero spinti verso il Brasile e così sarebbero giunti inizialmente in Amazzonia. Secondo questa teoria, il secondo popolo di navigatori che giunse occasionalmente nelle Americhe, furono i Fenici, che però lasciarono nel continente sud americano forse molte più evidenze archeologiche e, anche in questo caso, tracce “linguistiche”.

Uno dei primi sostenitori della teoria della presenza antica dei Fenici in Brasile fu il professore di storia austriaco Ludwig Schwennhagen (XX secolo), che nel suo libro “Storia antica del Brasile”, citava gli studi di Umfredo IV di Toron (XII secolo). Secondo quanto riportato nel libro di Schwennhagen, Umfredo IV aveva descritto i viaggi del re Hiram di Tiro (993 a.C.), e re Salomone di Giudea (960 a.C.) nelle lingue locali. Secondo Schwennhagen la lingua Tupi Guaraní avrebbe la stessa origine delle lingue medio-orientali e, in particolare mostrerebbe molte similitudini con la lingua sumera.

È possibile citare, come evidenze archeologiche a sostengno di questa tesi, la Pedra di Gavea e la Pedra d o Ingá. 

La prima, ubicata presso Barra da Tijuca nello Stato di Rio de Janeiro, riporta dei petroglifi che sono stati parzialmente decifrati dallo studioso Bernardo de Azevedo da Silva Ramos così: “Qui Badezir, re di Tiro, figlio più vecchio di Jetbaal”. L’iscrizione risalirebbe quindi all’incirca all’840 a.C., in quanto Jetbaal regnò fino all’847 a.C

La Pedra do Ingá, invece, si trova nello stato di Paraiba, in Brasile ed è un enorme masso orizzontale lungo circa 24 metri e alto 3 metri. In totale vi sono più di 450 disegni incisi nella roccia. La maggioranza di queste incisioni sono apparentemente astratte, ma secondo alcuni ricercatori avrebbero una lontana affinità con la lingua ittita.

Per rimanere in tema di scritture geroglifiche, c’è poi da citare l’analogia (vedi l’immagine all’inizio dell’articolo) tra la scrittura Rongorongo della civiltà Rapanui dell’isola di Pasqua con quella delle civiltà che abitavano la valle dell’Indo. La scrittura Indus della civiltà Harappa, utilizzata tra il XXVI e il XX secolo a.C. nella Valle dell’Indo, attuale Pakistan, riportata su vari “sigilli” trovati nei pressi di Mohenjo-daro, presenta sorprendenti somiglianze con la scrittura che si sviluppò sull’Isola di Pasqua. Qui le similitudini sono evidenti anche agli occhi di un profano.

È importante sottolineare che si tratta di civiltà distanti nel tempo oltre duemila anni e separate dall’oceano indiano e pacifico. Forse, la civiltà che sorse nella Valle dell’Indo, per motivi di natura commerciale, iniziò a navigare in ogni direzione. Possiamo verosimilmente ipotizzare che forse si spinsero nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, fino a giungere proprio sulla misteriosa Rapa Nui, dove lasciarono tracce evidenti del loro passaggio.

Se per spiegare le analogie architettoniche e mitologiche tra civiltà del passato è possibile, sebbene personalmente il tutto mi sembri semplicistico e poco probabile, avanzare l’ipotesi che si tratti di semplici coincidenze, quando si trovano analogie linguistiche tutto cambia, perché la lingua è il prodotto di una moltitudine di fattori, in cui quelli locali hanno un peso maggiore. Direi che le analogie linguistiche, sommate a tutte le altre riscontrate (architettoniche, iconografiche, mitologiche, ecc) siano sufficienti per porsi quantomeno la domanda riguardo la correttezza della storia così come ci viene raccontata da sempre.

Stefano Nasetti

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Guarda il video sull'argomento publicato dal canale Youtube  Misteri Channel Show

 

 

 

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Il contatto alieno non fa paura

(Questo articolo è stato pubblicato anche sulla rivista UFO INTERNATIONAL MAGAZINE nel numero di Maggio 2021)

La maggioranza della popolazione mondiale è cresciuta in una cultura che per millenni ha sostenuto e propagandato l’idea che l’uomo è l’unica forma di vita nell’universo, interpretando le storie di un eventuale contatto alieno avvenuto ripetutamente nel passato in diverse civiltà e in diversi luoghi del globo, come storie di fantasia, relegandola a pura e semplice mitologia.

Nonostante il dibattito sulla vita extraterrestre e sulla pluralità dei mondi risalga addirittura al 600 a.C. ai tempi di Talete, e che tutte le civiltà del passato abbiano chiaramente fatto riferimento, nei propri miti, alla discesa dal cielo di esseri delle stelle, la visione antropocentrica del mondo e dell’universo stesso ha prevalso sulla spinta soprattutto delle religioni monoteiste, con particolare riferimento alle elaborazioni teologiche del cristianesimo, dell’islamismo e dell’ebraismo.

Dopo centinaia di anni, questa idea è divenuta un dogma ,benché il dibattito sulla possibile esistenza di altre civiltà intelligenti non sia stato mai, nel corso dei secoli, del tutto sopito. Quando, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, è tornato alla ribalta l’argomento extraterrestre, è stato inevitabile che questo fosse vissuto in modo negativo.

Al netto delle opinioni sinceramente poco possibiliste di qualcuno, dei meno rispettabili proclami e dichiarazioni diffamatorie di alcuni, e quele opportunistiche e saccenti di altri, tutte le persone che hanno preso in considerazione questa apparentemente irrealistica possibilità, hanno certamente vagliato il tutto con un non biasimabile senso di timore. Se da un lato l’idea di entrare in contatto con altri esseri intelligenti poteva affascinare, dall’altro i timori prendevano il sopravvento. La domanda che su tutte alla fine finiva per prevalere era: questi alieni verranno in pace?

D’altro canto tendiamo legittimamente ad aspettarci che gli altri si comportino come (se non peggio) abitualmente ci comportiamo noi, e l’essere umano, così come dimostra la storia sia passata sia presente, non è certo un essere pacifico.

Nei testi sacri delle stesse religioni monoteiste che hanno contribuito ad escludere l’esistenza di altri esseri intelligenti nell’universo, è evidente come gli uomini (un po’ per indole e un po’ per eseguire gli stessi dettami del presunto “Dio”), sono protagonisti di battaglie, conquiste e stermini che vanno ben oltre la semplice volontà di prevaricare altri individui. Questi scritti ci narrano di crudeltà perpetrate su altri uomini, donne, bambini, animali e cose, crudeltà che non può essere giustificata e compresa come normale e logica conseguenza della lotta alla sopravvivenza. Se l’indole umana si è rivelata tutt’altro che pacifica e disinteressata, come possiamo immaginare che altre creature sconosciute lo siano?

Va da sé che l’eventuale contatto extraterrestre possa essere vissuto con ragionevole timore, proiettando in creature sconosciute quelle caratteristiche o attitudini che si sono dimostrate, almeno fino a questo momento, forse peculiarità dell’essere umano.

Dai primi libri di fantascienza fino ai film hollywoodiani dei primi anni ’90, il tema del contatto alieno è stato raccontato sempre (salvo rare eccezioni) come ostile. Più che un contatto tra civiltà diverse, si trattava soprattutto di una vera e propria invasione della Terra, perpetrata da alieni al fine di depredarla delle sue risorse o per sterminare il genere umano.

Poi le cose sono gradualmente cambiate. La scoperta nel 1996 dei primi esopianeti, ha rispolverato nella mente di gran parte della comunità scientifica ufficiale, da sempre scettica all’esistenza di civiltà aliene e allineata alla tradizionale visione antropocentrica, l’idea che quella della vita extraterrestre potesse essere una possibilità tutt’altro che da scartare. Così, da quel momento, anche la comunicazione pubblica di questa idea ha assunto una connotazione più positiva. Il dibattito sulla possibilità di un contatto extraterrestre si è ampliato ed ha trovato, sebbene ancora con una prevalenza nelle dichiarazioni ufficiali di scetticismo, ilarità, sempre maggiore diffusione anche al di fuori dell’ambito letterario e cinematografico.

I racconti sempre più numerosi di contatti alieni, narrati ora dai sedicenti protagonisti, non riguardavano più soltanto aspetti e circostanze vissute con paura e timore, ma mettevano spesso in risalto la positività dell’incontro. In questi racconti il tema centrale non era più il contatto in sé, l’aspetto tecnologico della circostanza o la descrizione fisica degli alieni, quanto piuttosto il “messaggio” positivo che l’evento lasciava nella vita dei protagonisti, messaggio non personale ma globale.

Se negli anni passati la maggioranza delle persone che sosteneva di aver vissuto un’esperienza di contatto extraterrestre (indipendentemente che questa fosse stata vissuta o no positivamente), aveva forti reticenze a raccontarla, spesso per la paura di non essere creduta e additrittura derisa, oggi la cosa è diametralmente cambiata. Ora sembra quasi che ciascuna di queste persone senta l’obbligo, ancor prima della necessità, di parlarne, raccontando le sensazioni positive provate e cercando di trasferire agli altri il “messaggio positivo” che ritiene di aver ricevuto, al fine di aiutare il genere umano a progredire, soprattutto da un punto di vista spirituale.

Non è questa la sede per scendere nei dettagli di un discorso complesso e complicato come quello del tema ufologico, sulla sua veridicità e sull’impatto che questa idea o fatto, ha (e ha avuto in passato) sulla storia, sull’evoluzione e sulla psiche del genere umano, per il cui approfondimento rimando a quanto già ampiamente trattato nei lavori già pubblicati.

L’evidente cambio di atteggiamento da parte delle istituzioni, che non può trovare giustificazione nelle sole ufficiali e ampliate conoscenze scientifiche e archeologiche, è stato pianificato decenni prima (come emergerebbe da alcuni documenti americani desecretati degli anni ’60)? Questo cambio di atteggiamento è la prova evidente che siamo nel bel mezzo di una campagna mediatica preparatoria per l’accettazione di questa ineluttabile realtà?

Il cambio di considerazione da negativa a positiva che quest’idea ha avuto soprattutto negli ultimi venticinque anni, sembra aver mutato la comune percezione del fenomeno, questo è almeno quanto risulta dai risultati di tre ricerche pubblicate sulla rivista Frontiers in Psychology, condotte negli Stati Uniti, dall’Arizona State University.

Le ricerche si sono basate sull’analisi di articoli usciti su quotidiani e riviste. Si tratta della prima volta che uno studio, sebbene su un campione molto limitato di popolazione, si occupa di rilevare la percezione di questo fenomeno.

Nel primo studio sono stati passati in rassegna gli articoli pubblicati dal 1996, anno della scoperta del meteorite marziano ALH84001 in cui si evidenziava la presenza di strutture fossile di probabile origine biologica, alle più recenti notizie sulla possibile megastruttura artificiale aliena attorno alla stella Tabby, o ancora al sistema Trappist-1 in cui è stata rilevata la presenza di almeno tre pianeti potenzialmente adatti a ospitare la vita. Analizzando il linguaggio dei giornali con l'aiuto di un software, sono emersi emozioni e atteggiamenti quasi sempre positivi. Questo studio ha quindi evidenziato il mutato atteggiamento dei mass media nell’approccio a quest’argomento.

Nel secondo studio gli stessi ricercatori hanno chiesto a 500 persone di scrivere le loro possibili reazioni all'annuncio della scoperta di vita extraterrestre in forma di microrganismi. Anche in questo caso le risposte sono state ottimiste.

Nel terzo studio è stato chiesto a più di 500 persone di scrivere le loro reazioni su due scoperte del passato descritte nei giornali: le possibili tracce di antichi microrganismi su un meteorite marziano e la creazione di vita umana sintetica in laboratorio. Anche in questo hanno prevalso le emozioni positive. "Tutto ciò – ha affermato il coordinatore dello studio Michael Varnum - indica che se dovessimo scoprire che non siamo soli, prenderemmo la notizia piuttosto bene".

Ora che anche alcuni settori del mondo scientifico sembrano pronti ad accettare questa idea, non ci resta che attendere l’eventuale annuncio ufficiale che potrà avvenire soltanto con l’avallo delle Autorità politiche. Nel frattempo, mentre la maggioranza delle persone attende che gli sia detto cosa pensare e cosa credere, tutti gli altri dalla mente più aperta e indipendente, possono documentarsi e farsi la propria opinione, vagliando seriamente questa possibilità.

Stefano Nasetti

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Gli Ufo in epoca romana

Siamo spesso abituati ad ascoltare da chi non ritiene possibile il contatto extraterrestre e falso il fenomeno ufo in generale, che tutto questo è frutto di suggestioni moderne e nulla più.

Già in un articolo precedente ho illustrato come esistano casi documentati già centocinquanta anni fa, ancor prima del volo dei fratelli Wright.

In quest’articolo voglio ora proporre alcuni passi di testi di epoca romana in cui si parla di eventi che oggi noi definiremmo avvistamenti di Ufo. Questo dovrebbe essere sufficiente una volta per tutte, quantomeno a tacitare la superficiale, qualunquistica e forviante obiezione che viene diffusa dai saccenti conservatori delle idee tradizionali.

“[…] Lo storico romano di origine ebraica Giuseppe Flavio nel suo scritto “Guerra Giudaica”, opera pubblicata nel 75 d.C. in greco ellenistico, racconta la storia di Israele dalla conquista di Gerusalemme da parte di Antioco IV Epifane (164 a.C.) alla fine della prima guerra giudaica 74 d.C. L’opera è considerata una fonte storica attendibilissima dalla scienza accademica. In questo scritto Giuseppe Flavio racconta un evento che lui stesso definisce “incredibile”. Flavio scrive (Tratto dal libro VI – eventi precedenti la caduta di Gerusalemme): “Non molti giorni dopo la festa, il ventuno del mese di Artemisio, apparve una visione miracolosa cui si stenterebbe a prestar fede; e in realtà, io credo che ciò che sto per raccontare potrebbe apparire una favola, se non avesse da una parte il sostegno dei testimoni oculari, dall'altra la conferma delle sventure che seguirono.

Prima che il sole tramontasse, si videro in cielo su tutta la regione carri da guerra e schiere di armati che sbucavano dalle nuvole e circondavano le città.

Inoltre, alla festa che si chiama la Pentecoste, i sacerdoti che erano entrati di notte nel tempio interno per celebrarvi i soliti riti, riferirono di aver prima sentito una scossa e un colpo, e poi un insieme di voci che dicevano: Da questo luogo noi ce ne andiamo.”

Cosa ha descritto Flavio?

Sebbene come detto Giuseppe Flavio sia considerato uno storico attendibile, il passo sopra citato è molto noto e allo stesso tempo, molto controverso. Spesso viene liquidato dagli scettici dell’argomento ufologico, come un’allucinazione che lo storico, insieme ad altri testimoni, ebbe in quei giorni. Ma mi chiedo, è davvero così?

In epoca romana, lo storico del IV secolo d.C. Giulio Ossequente, nel libro il "Prodigiorum Liber" (la versione oggi conosciuta è stata stampata per la prima volta a Venezia da Aldo Manuzio nel 1508, un'edizione ricavata da un manoscritto rinvenuto e copiato in Francia e andato perduto), raccolse e riportò la descrizione di una serie di insoliti eventi avvenuti nei cieli di Roma e nei suoi domini, definiti appunto ”prodigia”, in epoca romana. I fatti narrati sono tutti tratti dalla storia narrata da Tito Livio. Ne riporto alcune che ritengo più significativi.

Nel 171 a.C. “Nel consolato di Lucio Postumio Albino e di Marco Popilio Lenate, in Lanuvio (località nei pressi di Roma) fu veduta in cielo, una grandissima armata navale

Nel 91 a.C. “Nel consolato di Gaio Valerio e di Marco Erennio, a Bolsena (località nei pressi dell’omonimo lago del Lazio) una luce diffusa fu vista all’alba splendere nel cielo; essendosi concentrata in un sol punto, la luce assunse un aspetto bruno come il ferro; il cielo fu visto aprirsi e nell’apertura di quello apparvero dei vortici di fiamma che si avviluppavano insieme”.

Nel 89 d.C. “Nel territorio di Spoleto un globo di fuoco di colore dorato cadde a terra ruotando su se stesso. Quindi sembrò aumentare di dimensioni, ed elevandosi da terra ascese verso il cielo, dove oscurò il disco del sole con il suo splendore. Si allontanò poi verso il quadrante orientale del firmamento".

Nel 98 d.C. "Quando C. Mario e L. Valerio erano consoli, a Tarquini, da luoghi diversi fu vista cadere improvvisamente dal cielo una cosa simile ad una torcia fiammeggiante. Al tramonto un oggetto volante circolare, simile per forma ad un ardente clypeus (scudo dei legionari romani) fu visto attraversare il cielo da ovest ad est".

Queste dettagliate descrizioni di oggetti metallici che giungono fino a terra per poi risalire verso il cielo, non sembrano per nulla riconducibili a fenomeni atmosferici e neanche compatibili con la caduta di fulmini meteore o cose simili. Dunque cosa erano? Tutte allucinazioni?

Nella primavera del 312 a.C., Costantino invase l’Italia e dopo aver sconfitto le truppe romane nella battaglia di Torino e quindi nella battaglia di Verona, si diresse verso Roma tramite la via Flaminia, per accamparsi sulla riva destra del fiume Tevere a poca distanza dal ponte Milvio. Secondo le cronache storiche ufficiali, Costantino era deciso a sconfiggere Massenzio, allora imperatore, e a prendere Roma. Tuttavia si racconta come una volta arrivato nei pressi della città, si fosse preoccupato nel costatare che Massenzio disponeva di un esercito numericamente più forte del suo. Massenzio aveva infatti, verosimilmente a disposizione, secondo gli storici più attendibili, oltre 100.000 soldati tra fanti e cavalieri, mentre Costantino soltanto 40.000. Nei giorni che precedettero la battaglia (28 ottobre 312 a.C.), si racconta (dallo scrittore cristiano Lattanzio, precettore dei figli di Costantino, nell’opera “De mortibus persecutorum”, scritta poco dopo i fatti) che la notte prima della battaglia, Costantino avrebbe ricevuto in sogno l'ordine di mettere sullo scudo dei propri soldati, un segnale celeste divino. L'episodio è raccontato anche nell’opera “Vita di Costantino”, scritta dal vescovo Eusebio di Cesarea, stretto collaboratore di Costantino dal 325.

Secondo questa versione, i fatti si svolsero in pieno giorno ed in presenza di numerosi testimoni. Poco dopo mezzogiorno, Costantino ed il suo esercito assistettero ad un evento celeste prodigioso: l'apparizione di un incrocio di luci sopra il sole accompagnate dalla scritta “In hoc signo vinces” (dal latino "con questo segno vincerai”, in realtà sembra che la scritta fosse in lingua greca). Costantino avrebbe dunque chiamato dei sacerdoti cristiani per essere istruito su una religione, il cui contenuto non gli era ancora noto e impose alle sue truppe di apporre sui vessilli e sugli scudi il simbolo cristiano del Chi-rho, detto anche monogramma di Cristo, formato dalle lettere XP sovrapposte.

Nonostante le forze numeriche in campo non giocassero dalla sua parte, Costantino vinse la Battaglia di Ponte Milvio, diventando imperatore di Roma ed istituendo il cristianesimo come religione di Stato.

Cosa vide veramente Costantino? Se l’evento non si fosse verificato, Costantino avrebbe vinto lo stesso la battaglia pur disponendo di un esercito notevolmente più esiguo rispetto a quello di Massenzio? In ogni caso, cosa sarebbe stato della religione cristiana? Questo episodio può essere considerato come la prova di un’ingerenza nella storia umana, da parte di entità extraterrestri, atto a indirizzarne il procedere in una determinata direzione, sovvertendo l’ordine apparente delle cose? Interessante suggestione. […]” (Brano tratto dal libro Il lato oscuro della Luna

Molte altre sono le evidenze sul fenomeno Ufo nel passato fino ai tempi d’oggi. Continuare ad ignorarle è una scelta personale, così come lo è quello di continuare a credere cecamente nelle affermazioni delle autorità scientifiche e non sul fenomeno.

Stefano Nasetti

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